Nei lunghi colloqui riservati che hanno punteggiato il desolante teatrino della catàbasi romana di Barack Obama, è da pensare che siano state chieste e date rassicurazioni circa l’impegno dell’Italia a guidare nel semestre di presidenza europea il processo di adesione al trattato commerciale atlantico noto come TTIP o TAFTA, un oggetto misterioso i cui veri contorni sono ancora coperti dal segreto delle stanze dei bottoni, ma si possono forse arguire da qualche statement interlocutorio, da qualche analisi smaliziata, dall’incrocio dei panegirici e dei crucifige. La pertinenza del tema alla visita di ieri sta nel fatto che Giorgio Napolitano aveva esplicitamente dichiarato l’urgenza di questo patto durante la sua visita americana del gennaio 2013, Obama l’aveva sbandierata con forza nel discorso alla nazione del 13 febbraio, ed Enrico Letta (qualunque cosa facesse nell’ambasciata inglese in quegli stessi giorni prima delle elezioni) si era convinto della causa al punto di garantire a ripetizione, da premier (l’ultima volta in Germania nel novembre scorso), ogni sforzo per arrivare alla firma entro il 2014 (le trattative sono iniziate a luglio 2013, e dureranno ancora qualche mese). In ragione dell’importanza economica e simbolica della questione, che in un Paese normale dovrebbe essere al centro dell’imminente campagna per le elezioni europee e invece ne latita totalmente, delineo qui in breve la materia del contendere.