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Donne in Egitto, lo spazio chiuso

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Le ultime immagini di donne arrivate dall’Egitto in questa drammatica estate sono il volto quasi infantile, incorniciato da un foulard a fiori, di Asma el-Beltagi, diciassette anni, studentessa, e quello paffuto e sorridente sotto lo hijab color lampone di Habiba Ahmed Abd Elaziz, ventisei anni, giornalista: ambedue uccise con armi da fuoco, come centinaia di altre vittime, durante lo sgombero del sit-in a piazza Rabaa Al Adawiya, al Cairo, il 14 agosto. Di quei giorni convulsi i media hanno rilanciato altre immagini emblematiche di donne: la donna con la maschera antigas su un terreno devastato, la ragazza esanime che un uomo abbraccia piangendo, la donna in nero con le braccia alzate, come una antica Sibilla, che si erge di fronte ad un carro armato a protezione di un ferito disteso a terra. Da allora più nulla.

In Egitto si sta ripetendo una vecchia storia: le donne vengono poste al centro dell’attenzione quando fa comodo salvo poi scomparire quando le vere poste in gioco emergono in tutta la loro crudezza. Conviene dunque muovere lo sguardo indietro, rispetto alle immagini di piazza Rabaa Al Adawiya e anche a quelle di piazza Tahrir: sulla condizione delle donne in Egitto prima della rivoluzione. Meglio, sulla condizione delle donne nelle grandi aree urbane in cui vive circa la metà degli egiziani, e che sono state i teatri della rivoluzione del 2011. Per esempio sulle immagini del film “678” del giovane regista Mohamed Diab, che ritrae le molestie sessuali, quotidiane o occasionali, subite da tre donne che incarnano diverse figure del ceto medio urbano cairota: la piccola borghesia di stato, le professioni autonome, l’ambiente artistico-mediatico. Il film è uscito nel dicembre 2010, poche settimane dopo il regista era in piazza Tahrir a dare una mano alla rivoluzione. Ma al momento della sua uscita era già riuscito ad attirarsi una denuncia da parte dell’Associazione per i diritti umani e la giustizia sociale: descrivendo l’arma impropria di autodifesa di queste donne – spilloni infilati nei genitali dell’aggressore – il film costituirebbe “incitamento alla violenza” e come tale andrebbe bandito [1].

I rapporti di genere al Cairo alla vigilia della rivoluzione sono il risultato di due grandi processi: la modernizzazione di stampo occidentale, dalla fine del XIX secolo, imposta dai processi coloniali ma accolta con entusiasmo dalle élites e da ampie fasce di strati popolari che nella città beneficiavano di un certo progresso economico e sociale; e la “reislamizzazione” della società che ha le sue radici più o meno nello stesso periodo ma che viene identificata soprattutto con la fondazione della Fratellanza musulmana nel 1928 e con le trasformazioni sociali e culturali che seguono la disastrosa guerra del 1967 contro Israele e il crollo dell’illusione nasseriana di tenere insieme nazionalismo panarabo e modernismo europeo. Quelli delle vecchie generazioni raccontano con nostalgia il passaggio da una città dove le ragazze giravano in minigonne e pantaloni attillatti ad una dove non solo si è diffuso l’uso del foulard islamico ma sempre più donne vestono con abiti informi dai colori scuri che coprono tutto il corpo. E non ha certo rappresentato un ostacolo il “femminismo di stato” inaugurato da Nasser: con Sadat e Mubarak esso è andato mano nella mano con un “islamismo di stato”.

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Tratto da www.ingenere.it
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