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L’Egitto attraversa una crisi economica profonda. Il controllo dei prezzi e la creazione di un welfare pubblico sono tra le principali rivendicazioni degli attivisti, disattese dai governi pro tempore, che hanno gestito gli affari correnti dopo le rivolte del 25 gennaio 2011. Le parziali politiche di liberalizzazione, promosse dai Fratelli musulmani, e l’incapacità di negoziare nuove condizioni per il prestito da 3,8 miliardi di euro con il Fondo monetario internazionale (Fmi) hanno esasperato milioni di elettori e intaccato gli interessi economici dei militari.
In seguito al colpo di stato del 3 luglio scorso, l’agenzia Fitch ha declassato il rating dell’Egitto da B a B- con outlook negativo. La decisione è dovuta all’instabilità politica interna del paese, con possibili ripercussioni sui risultati e la fiducia degli investitori. Solo poche ore prima erano suonati i anche campanelli di allarme dell’agenzia di investment banking, Merrill Lynch. All’Egitto, si legge in una nota, restano «sei mesi di tempo». Al termine di questo periodo «le posizioni esterne si irrigidiranno considerevolmente e la sostenibilità fiscale finirà sotto una severa pressione». In altre parole, gli investitori stranieri, se non lo hanno già fatto, fuggiranno dal paese in fiamme. Infine, sono perfino peggiori le considerazioni sullo stato dell’economia egiziana di Moody’s e Standard&Poor’s. Entrambe le agenzie di rating concordano che il paese non vale più di un CCC+: molto vicino al baratro insomma.
Ma ci sono decine di dati preoccupanti. Gli allarmi della Banca centrale egiziana segnalavano da tempo la drastica diminuzione delle riserve valutarie. Da 36 miliardi di dollari (di fine 2010) si è passati all’imbarazzante 13,5 miliardi del 2013. Le scarse riserve mettono a rischio la tenuta delle casse del paese e la sostenibilità del debito pubblico, in particolare con alcune banche straniere, come il colosso di Hong Kong Hsbc, che da solo rivendica un debito pari a 33 miliardi di dollari di costi finanziari per il 2013.
Più temibile del debito pubblico però, è il crack agricolo che ha messo in ginocchio i contadini egiziani. La produzione di grano è calata drammaticamente nel 2012, secondo alcuni esperti quasi dell’85%. La causa è la diminuzione delle importazioni da parte dell’Autorità nazionale sul grano (Gasc). In più, la mancanza costante di benzina ha fatto aumentare i costi di importazione di fertilizzanti e pesticidi, complicando l’irrigazione dei campi e minacciando il raccolto effettuato con mezzi meccanici. Secondo il Gasc, molti contadini hanno abbandonato il raccolto per la mancanza di benzina, in particolare nell’Alto Egitto.
continua

Tratto da www.linkiesta.it
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