Con il voto contrario alla nomina del lussemburghese Yves Mersch alla Bce, la scorsa settimana è andato in scena il primo serio scontro tra l'istituzione democratica più rappresentativa dei popoli europei e l'istituzione più importante per la loro vita economica. L'oggetto non ha a che vedere con la condotta scelta dai timonieri della Bce nel mezzo della più grave tempesta affrontata dai tempi della creazione dell'euro, ma con il sesso dei timonieri: tutti maschi.
Può stupire l'apparente lontananza di tale questione – rilevantissima, anzi vitale per le istituzioni e la politica europea, meno per quelle italiane – dai dilemmi e dalle tragedie nei quali quotidianamente la Bce si dibatte, e fa dibattere governi e popolazioni dell'area dell'euro. Molti potrebbero pensare, e sostenere, che è la linea della Bce che deve cambiare, non la composizione di genere del suo board. E la figura di Angela Merkel, donna tra le più potenti nell'economia mondiale, ricorda a tutti che i “falchi” possono essere di entrambi i generi – anzi da Thatcher in poi il liberismo ha un buon equilibrio tra re e regine. Eppure, la fotografia d'altri tempi di quel club chiuso di soli maschi riassume e in qualche modo simboleggia un arroccamento e una lontananza dalla realtà, dalla concretezza di tutto quello che si muove fuori. Anche da quelle evidenze che altrove stanno incrinando delle certezze: com'è successo dalle parti di un'altra donna altrettanto potente dell'economia mondiale come la direttrice del Fmi Christine Lagarde. Guardando quel che sta venendo fuori dal Fondo monetario internazionale infatti vien da chiedersi che fine abbia fatto quell'insieme di certezze, ideologia e politiche che va sotto il nome di Washington consensus.
Coniata nel 1989 dall'economista John Williamson per descrivere l’insieme di direttive di politica economica che costituivano il pacchetto standard imposto dalle organizzazioni internazionali con sede a Washington - Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d'America - ai paesi in via di sviluppo che si trovassero in crisi finanziaria, l'espressione è divenuto sinonimo di un approccio economico fortemente orientato al mercato (neoliberismo o fondamentalismo di mercato). La critica alla filosofia del Consensus ha visto schierati i personaggi più diversi: dai politici e economisti eterodossi dei paesi in via di sviluppo, specialmente latino-americani, a finanzieri come George Soros, premi Nobel come Joseph Stiglitz, e accademici. Dani Rodrik, dell’Università di Harvard così ha riassunto l’essenza di questa filosofia in un testo di qualche anno fa:
“Stabilize, privatize, and liberalize" became the mantra of a generation of technocrats who cut their teeth in the developing world and of the political leaders they counseled1.
Le critiche riguardavano sia il metodo che l’efficacia. Da un lato si sottolineava l’ottusità di ritenere di poter applicare un unico pacchetto di ricette a paesi con condizioni economiche, sociali e istituzionali enormemente diverse; dall’altro si mettevano in discussione gli stessi fondamenti alla base delle ricette: la mancanza di evidenza che mercati del lavoro più flessibili siano in grado di creare occupazione; le gravi recessioni, accompagnate dall’aumento della diseguaglianza e della povertà, conseguenti alle misure imposte, che non aprivano la strada a un maggiore tasso di crescita nel lungo periodo; e soprattutto l’ammonizione che politiche di austerità, se necessarie, dovessero essere adottate in periodi di crescita economica e non in recessione.