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Eugenio Scalfari ha riesumato dal suo vastissimo archivio interviste a Luciano Lama nelle quali il più emblematico e carismatico leader della Cgil (forse dopo Di Vittorio) contestava la tesi allora in voga del salario come variabile indipendente per sostenere, al contrario, che la difesa dell’occupazione postulava, in una economia aperta, che il salario, ma diciamo meglio, il costo del lavoro si ponesse in funzione della produttività. La tesi era, quindi, che, “per il bene del Paese”, i sindacati dovevano moderare le proprie rivendicazioni se il fine “assolutamente prioritario” doveva essere, come in effetti era, l’occupazione.

Scalfari ha girato le tesi di Lama alla Camusso, a Bonanni e ad Angeletti ritenendole di viva attualità sia pure in un mondo che, ovviamente, è profondamente cambiato rispetto al tempo – trent’anni fa o giù di li – al quale si riferiscono. Ed invitando i tre leader a rileggerle “perché è del sindacalismo operaio che si parla e del suo compito di interprete delle esigenze dei lavoratori e dei pensionati, ma anche del bene comune”.

Dobbiamo essere grati a Scalfari per aver richiamato questi documenti che possono essere ben assunti come la enunciazione delle politiche che, in un modo o nell’altro, hanno poi trovato attuazione sia nel senso salariale in senso stretto, sia nel senso delle altre norme che hanno consentito un contenimento del costo del lavoro. È fuori discussione, infatti, che i salari reali sono fermi almeno da una quindicina di anni, e che i cosiddetti contratti atipici hanno determinato una riduzione del costo del lavoro anche rispetto ai contratti che regolano i rapporti a tempo indeterminato, consentendo al tempo stesso una elevata flessibilità (riconosciuta anche dall’Ocse) nell’impiego della quantità di lavoro nei processi produttivi.

E tuttavia, ora come allora il tema è: per difendere e recuperare occupazione occorre innalzare la produttività; e per innalzare la produttività è necessario non più solo moderazione salariale, che questa è data ormai per scontata, ma anche una ancora maggiore flessibilità “in uscita” affinché le imprese non abbiano remore nell’assumere se e quando possono farlo.

Insomma, sostanzialmente la stessa riproposizione delle tesi di trent’anni fa. Una riproposizione – e questo è davvero difficile da capire – che avviene senza una benché minima considerazione di ciò che è avvenuto negli ultimi quindici-venti anni nei quali quelle tesi hanno trovato sostanziale applicazione. Prima di riproporle, sarà il caso di dare uno sguardo agli effetti che hanno determinato? I salari sono fermi da quindici anni, il precariato si è diffuso, la disoccupazione è aumentata, il Pil non cresce più, il Paese nel suo complesso si è impoverito e continua ad impoverirsi: tutto questo non ha nulla a che fare con le politiche che quelle impostazioni logiche hanno generato? Altro che bene comune!

Una pur sommaria analisi delle ragioni per le quali ci ritroviamo nel desolante stato attuale richiede che sia richiamata qualche elementare nozione sulla produttività. La produttività economica – perché è di questa che si deve parlare in una economia aperta e competitiva – è il rapporto tra il valore della produzione e quello dei fattori impiegati per realizzarla. Il valore della produzione è dato dal prezzo massimo al quale può essere venduta, mentre quello dei fattori è dato, certo, dal costo del lavoro impiegato, ma anche da quello del capitale, intendendo per tale non solo i beni fisici (macchinari, capannoni, energia, materie prime, ecc.) ma anche l’organizzazione, il know-how, i brevetti e gli altri beni immateriali che l’imprenditore può apportare. È ovvio, quindi, che la produttività può salire se si riduce il denominatore, ma può salire anche se aumenta il numeratore. Il denominatore diminuisce contenendo il costo dei fattori, e del lavoro in primo luogo; il numeratore può crescere realizzando prodotti difficilmente aggredibili dalla concorrenza per i loro contenuti di esclusività, di innovazione, di qualità.

Semplificando: per reggere il mercato una impresa ha bisogno di un minimo di produttività che può ottenere o riducendo il denominatore, quindi soprattutto il costo del lavoro, oppure elevando il valore del suo prodotto in modo da sottrarsi alla concorrenza dei Paesi a basso costo ed a bassa tecnologia che le impone prezzi di vendita estremamente compressi, margini risicati e, quindi, impossibilità di occupare più persone e remunerarle più decentemente. La riduzione del costo del lavoro è proprio la strada che la grande maggioranza delle imprese, con la spinta della politica e la sostanziale approvazione dei sindacati, ha percorso da quindici-vent’anni a questa parte col risultato drammatico di un Paese sempre più impoverito che abbiamo tutti sotto gli occhi, senza con questo aver risolto, e neppure ridotto, la piaga della disoccupazione.

Del resto, se una impresa non ce la fa, la riduzione del costo del lavoro non ha altro significato che il trasferimento del costo della sua inefficienza a carico dei suoi dipendenti, così come aiutarla con riduzione di imposte e contributi non ha altro senso che trasferire le conseguenze delle sue inefficienze sulla intera collettività. Nell’un caso e nell’altro quell’inefficienza rimane, e non ci si deve stupire se continuerà a presentare il conto.

Ma quell’impresa potrebbe sopravvivere anche se si dedicasse a produzioni di più alto livello e con maggiore valore aggiunto, tale da assicurarsi prosperità anche remunerando il lavoro a livelli più consoni per un Paese che nutra la legittima ambizione di rimanere tra quelli civilmente e socialmente, oltre che economicamente, più evoluti. Questa seconda possibilità, l’unica che può assicurare un effettivo recupero di efficienza economica, comporta però per gli imprenditori un maggiore impegno non solo finanziario, dal momento che postula corposi investimenti, ma anche organizzativo, essendo preclusa, ad esempio, ad un sistema fatto prevalentemente di nanoimprese a carattere rigorosamente familiare. E la legge della sopravvivenza dice che questa viene perseguita sempre con il metodo più semplice, immediato e meno costoso disponibile; quindi riducendo il denominatore, ossia riducendo il costo del lavoro. Con buona pace – si deve aggiungere a questo punto – di chi recrimina sul progressivo impoverimento non solo dei lavoratori, ma dell’intero Paese nel suo complesso.

Abbandonare la strada seguita (e che si intende ancora seguire) non è facile: significa alzare l’asta che le imprese devono superare per sopravvivere, cominciando col precludere di potersi avvalere di lavoro a costi sempre più bassi. Significa accettare che molte non ce la faranno ed avere la forza di attendere che altre si organizzino per sopravvivere senza contare sul progressivo impoverimento dei lavoratori e dell’intero Paese. Significa rinunciare alla priorità di una occupazione purchessia per indurre una ricomposizione del sistema produttivo in grado di produrre la ricchezza necessaria per risolvere il conflitto tra la sopravvivenza delle imprese e più soddisfacenti condizioni economiche di chi lavora. Significa compiere uno sforzo forse epocale per assistere la disoccupazione che necessariamente si creerà almeno per un periodo di transizione. Significa una politica che aiuti le imprese non abbassando continuamente l’asta che devono saltare, ma che le aiuti in tutto ciò che le può portare a saltare un’asta più alta. È difficile, l’abbiamo detto. C’è in primo luogo da superare una cultura diffusa a motivo della quale per difendere nell’immediato posti di lavoro si accetta qualsiasi prezzo, anche se nel tempo gli effetti che si determinano sono del tutto opposti: la disoccupazione non si risolve e gli occupati stanno sempre peggio. Davvero possiamo ancora credere che se ne possa uscire con ulteriori somministrazioni di “moderazione” salariale, di “flessibilità”, ed in definitiva di povertà?

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