Di qua un parziale scardinamento dell’articolo 18, di là l’escusione degli enti pubblici dalla gestione dei servizi locali. Nelle bozze del provvedimento che dovrebbe occuparsi di liberalizzazioni spuntano misure che poco c’entrano con il tema, e molto con una serie di conti che avrebbero dovuto esser chiusi ma, a quanto pare, restano ancora ben presenti nei desideri e nei tentativi di qualche membro del governo.
Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che l’articolo 18 è l’ultimo problema che hanno le imprese (vedi, ad abundantiam, questo sondaggio di Confindustria riportato da Repubblica), e che se qualche esponente dell’associazione imprenditoriale continua a parlarne è perché, come ha detto Raffaele Bonanni, “viene tirato per capelli”. Ma no, bisognava inserire quella norma secondo cui se più piccole aziende si fondono l’art. 18 non scatta fino a 50 dipendenti. Una norma insulsa, che non incoraggerebbe nessuna fusione e che creerebbe una ulteriore segmentazione normativa. Solo più confusione, insomma, e per che cosa? Scrive Il Fatto che l’iniziativa è stata del sottosegretario Antonio Catricalà e che il ministro Elsa Fornero non solo non ne sapeva niente, ma si è anche piuttosto innervosita per l’improvvida invasione di campo mentre è in corso la trattativa con i sindacati. Catricalà ha fatto tutto da solo? Si è consultato con Monti? Certo questi mezzucci non sembrano in linea con l’immagine del presidente del Consiglio.
Il quale tra l’altro, da autorevole economista qual è, ha certamente chiaro che, se l’Italia ha perso anche l’ultima A del rating di Standard & Poor’s, sul giudizio degli analisti pesa semmai di più un fattore come il clima sociale, che i continui attacchi alle residue garanzie per i lavoratori rischiano di esacerbare, che una norma il cui rilievo economico è giudicato insignificante da chiunque sia in buona fede.
Anche sui servizi pubblici locali ci sono norme almeno ambigue. Lo ha denunciato Il Manifesto, osservando che non solo vengono recuperate le norme del decreto Ronchi già ripescate dal governo Berlusconi (che aveva lasciato fuori solo l’acqua, causa referendum), ma si aggiunge che le gestioni dovranno essere affidate esclusivamente a società per azioni, escludendo gli enti pubblici di forma giuridica diversa. È vero che le spa potrebbero essere di proprietà pubblica al 100% (salvo altri colpi di mano), ma questa limitazione appare assai sospetta, come se si aspettasse il momento opportuno, in un futuro magari prossimo, per fare il passo decisivo e far vendere le azioni ai privati.
Come al solito: bastano le parole magiche, “privati” e “mercato”, per presupporre in ogni caso una maggiore efficacia ed efficienza, per perseguire le quali ci sarebbero invece altri metodi di cui qui non ci si occupa. Se c’è qualcosa di cui davvero non si sente il bisogno è che i problemi vengano affrontati con un’impostazione ideologica, per giunta con un’ideologia usurata.
Questo governo, lontano dall’impostazione della sinistra, è stato giocoforza accettarlo ed è altrettanto necessario sostenerlo a causa del disastro in cui ci aveva fatto precipitare il precedente. Ma non deve perdere di vista il fatto che deve mantenere un delicato equilibrio, senza debordare dal suo compito di traghettare il paese fuori dalla situazione di mergenza ma anche senza tentare di imporre misure che con questo compito hanno poco a che fare. Per la sinistra è lecito aspettarsi una seria lotta all’evasione fiscale e alla corruzione che – questa sì – non è né di destra né di sinistra, ma di qualsiasi Stato che non sia una repubblica delle banane. E che il presidente del Consiglio usi il suo indubbio prestigio internazionale per restituire all’Italia il ruolo che le spetta e che era stato annullato dalla gestione clownesca precedente. Il che significa che i nostri interessi e le nostre richieste dovranno avere il loro peso, anche se qualche volta la signora Merkel non dovesse essere d’accordo. Non si vede perché eccezioni e clausole speciali dovrebbero essere concesse solo quando le chiede il Regno Unito.