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Quando gli storici si occuperanno della crisi del 2007-2008 e delle sue conseguenze non potranno non stupirsi per l’inettitudine con la quale è stata affrontata dalle classi dirigenti occidentali e, in particolare, europee. Lo stupore sarà tanto più grande costatando che, almeno inizialmente, sembrava che tutti avessero maturato la lezione del 1929. Allora bisognò attendere tre anni per la grande svolta impressa all’America da Franklin Roosevelt. Oggi siamo alle prese con quella che viene considerata la minaccia concreta di una seconda e più grave recessione.

Il primo dato d’involuzione abbiamo dovuto registrarlo in America con la vittoria dei Repubblicani nelle elezioni di medio termine. Barack Obama aveva manifestato incertezze nel fronteggiare la crisi. Ma sin dal suo insediamento alla Casa Bianca aveva inaugurato una politica di forte iniziativa del governo. Basti ricordare gli ottocento miliardi stanziati per il rilancio dell’economia e, non ultimo, e sorprendente per la cultura americana, l’intervento diretto con l’impiego di cento miliardi per salvare General Motors e Chrysler.

Economisti di orientamento keynesiano come Krugman e Stiglitz criticarono il presidente per l’insufficienza delle misure di contrasto alla crisi. Avevano probabilmente ragione, ma rimaneva il dato di un approccio diverso da quello che affida al pareggio del bilancio e alla autoregolazione dei mercati la soluzione delle crisi.

In ogni caso, il quadro è radicalmente cambiato dopo che i repubblicani, sospinti dall’ala reazionaria dei Tea Party, hanno conquistato la maggioranza di uno dei due rami del Congresso. Il loro programma si concentra nell’opposizione al nuovo “stimolo” di 450 miliardi proposto da Barack Obama, salvo la parte che riguarda la riduzione delle tasse e dei contributi che favoriscono le imprese; nell’attacco ai pilastri dello Stato sociale americano, basati sulla Social Security (il sistema pensionistico pubblico), e sull’assistenza sanitaria per i poveri e per gli anziani; nella richiesta agli Stati di riequilibrare i bilanci licenziando e riducendo gli stipendi dei pubblici dipendenti; nel sostegno ai governatori degli Stati, primo fra tutti il Wisconsin, che stanno abolendo per legge la contrattazione collettiva nei settori pubblici, ultimo baluardo del sindacalismo americano, ridotto all’evanescenza nel settore privato.

Provate a leggere la lettera non più riservata della Bce al governo Berlusconi. Vi troverete in trasparenza tutti gli elementi di quello che in America è considerato un programma insensato o reazionario, o le due cose insieme. La differenza è che da quelle parti si tratta del partito di opposizione, in Europa delle autorità di governo dell’eurozona.

Ora che conosciamo nel dettaglio la lettera (meglio, l’ordine di servizio) inviata al governo Berlusconi, abbiamo la controprova di una politica che non ha nulla a che fare con una soluzione positiva della crisi, ma della crisi approfitta per dettare un programma economico e sociale ispirato ai canoni fondamentali della teologia neoliberista. Ciò che sorprende non è tanto la declinazione delle politiche quanto la certezza di poter intimare al governo italiano un vero e proprio programma politico come un tempo non lontano si faceva con gli Stati a “sovranità limitata” dell’Europa dell’est. Un programma tipico degli schemi neo-conservatori, tragicamente sperimentato negli ultimi due anni in Grecia col risultato di una lunga agonia verso un default annunciato e inevitabile.

Il contenuto della lettera non può nemmeno stupire più di tanto, trattandosi nella sua dettagliata articolazione del riflesso pavloviano di un’ideologia neoliberista che si riassume in “meno stato e più mercato”. Tralasciamo le pensioni, le privatizzazioni, la riduzione degli stipendi dei pubblici dipendenti e il mancato rimpiazzo del turnover; i tagli generali e “orizzontali” alla spesa pubblica. L’aspetto più straordinario e intrigante è ancora una volta la riforma del mercato del lavoro. Qui le prescrizioni sembrano scritte non da banchieri ma da agenzie di consulenza delle associazioni padronali: la riduzione dei salari mediante la liquidazione della contrattazione collettiva nazionale, lo spostamento del baricentro della contrattazione a livello aziendale con la fissazione di regole del lavoro frantumate senza coperture di livello superiore e, dulcis in fundo, la liberalizzazione dei licenziamenti.

Ci si può chiedere cosa c’entri tutto questo col risanamento del bilancio pubblico. Ma sarebbe una domanda scioccamente ingenua. Il futuro dei paesi aderenti all’euro è affidato alle “riforme strutturali”, formula quanto mai ingannevole per indicare una generale controriforma sociale. O, come in altre occasioni, abbiamo scritto, un New Deal rovesciato, se vogliamo riprendere il confronto con la crisi degli anni Trenta.

Intendiamoci, il governo Berlusconi, il peggiore e il più impresentabile governo di destra tra i tanti presenti in Europa, ha ritardato e allontanate le scelte necessarie fino a quando la speculazione finanziaria ha addentato la preda più grossa dopo i bersagli minori della periferia e dopo la Spagna.
Ma le sue responsabilità non ci possono far chiudere gli occhi di fronte al modo come le autorità europee stanno gestendo la crisi. Su questo punto la sinistra italiana è apparsa finora distratta o reticente nel timore di favorire l’inettitudine del governo in carica. La lettera dovrebbe aiutarci a uscire da questa pericolosa apatia.

E’ inutile, deprimente e senza costrutto continuare a lamentarsi delle incertezze o, se si preferisce, degli egoismi della Germania, se la sinistra non avrà insieme la credibilità e il coraggio necessari per porre esplicitamente la questione del futuro dell’euro e, in definitiva, dell’Unione europea. Il destino dell’Italia è legato a quello dell’euro, ma è anche vero il contrario.

A differenza della Grecia, nel caso italiano, si tratta di destini incrociati. Se, nella grande crisi che attraversiamo, difficilmente l’Italia potrà salvarsi da sola (anche con un nuovo governo), è altrettanto vero che l’eurozona senza l’Italia difficilmente potrebbe sopravvivere. La politica europea è un punto essenziale di un programma delle forze di opposizione che si candidano al governo. Se oggi il problema è come cacciare Berlusconi, un giorno dopo sarà, infatti, il “che fare”nei nostri rapporti con l’Europa.

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