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Dove va il commercio equo e solidale?

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1. “Adamo dove sei?” ovvero: la storia sino ad ora.

Dalla fine degli anni ‘90, in Italia, il Commercio Equo e Solidale ha visto la sua popolarità e riconoscibilità crescere esponenzialmente. Il fenomeno si è manifestato attraverso elevati tassi di crescita di organizzazioni di importazione e distribuzione, l’elevato numero di nuove aperture di botteghe del mondo sul territorio nazionale e il crescente numero di organizzazioni licenziatarie del marchio di certificazione dei prodotti, nonché attraverso un sempre maggior numero di cittadini-consumatori coinvolti attraverso le proprie scelte di consumo nel supporto al Commercio Equo e Solidale.

Il movimento italiano, nato all’inizio degli anni ’80 in un garage altoatesino sulla scorta delle più mature esperienze sviluppatesi nell’Europa centrale e settentrionale, diventa 30 anni dopo una delle realtà più vitali e vivaci nel mondo con 11 organizzazioni di importazione che sviluppano complessivamente un turnover di oltre 70 milioni di euro e circa 600 botteghe del mondo con 29.000 soci e 5.000 volontari (AGICES, 2011). In virtù del suo accresciuto ruolo quale soggetto economico e sociale, si sono susseguiti i riconoscimenti istituzionali, tanto a livello nazionale che europeo, circa la validità del sistema proposto quale strumento di lotta alla povertà. La Commissione Europea, a valle di numerose comunicazioni sul commercio equo, nel 2006 ha adottato una risoluzione (Risoluzione del Parlamento Europeo “Fair Trade and development” del 6 luglio 2006), che ne riconosce gli effetti benefici e fissa i criteri per difenderlo dagli abusi e dalle imitazioni (Fair Trade Advocay Office 2006). Ancora più recentemente, nel 2009, la Commissione ha pubblicato una comunicazione che riconosce il contributo del commercio equo allo sviluppo sostenibile (COM(2009) 215), ripresa nel 2010 dal Comitato Economico e Sociale e dal Comitato delle Regioni. Provvedimenti analoghi sono stati presi attraverso leggi apposite di riconoscimento del commercio equo in Francia e Belgio.

 

In Italia, mentre procede la discussione sulla legge nazionale (il disegno di legge depositato presso Camera e Senato è stato sottoscritto da 39 senatori ed oltre 80 deputati), dieci regioni (Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Umbria, Marche, Piemonte e Lazio) hanno già emesso la propria, e numerose pubbliche amministrazioni inseriscono nei propri bandi di fornitura punti di premialità per chi propone prodotti equo-solidali. Contestualmente il Commercio Equo e Solidale è sempre più al centro di analisi volte a misurare l’efficacia dello strumento in termini di riduzione della povertà, l’effettiva validità di un sistema di rivoluzione silenziosa e dal basso o la coerenza del suo carattere etico, nonché la robustezza delle sue metodologie di monitoraggio e valutazione. E’ infatti naturale che il livello di attenzione critica sia funzione di parametri di rilevanza socio-economica di un fenomeno. Come abbiamo detto le questioni poste possono essere di diversa natura in termini di ambito (teorico o operativo) e di provenienza in termini di settori ideologico-culturali. Una delle questioni talvolta poste concerne la possibilità che il Fair Trade promuova un modello di sviluppo basato sulle esportazioni e l’eventuale contraddizione tra tale assunto e il contesto ideale e concettuale che ha dato vita al movimento italiano del Commercio Equo e Solidale. Affrontare la questione posta significa inoltre provare ad allargare il ragionamento alla capacità del Fair Trade di mantenere intatta la sua spinta propulsiva sociale e sugli orizzonti che si pongono innanzi al movimento. Ad ogni modo il primo passo di qualunque analisi o riflessione deve provare chiarire preliminarmente i concetti ed i soggetti su cui ci si interroga.

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Tratto da www.finansol.it
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