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La manovra correttiva varata dal Consiglio dei ministri il 30 giugno è innanzitutto segnata dalla scelta del governo italiano di andare oltre lo sforzo richiesto dall"Unione europea. Si è deciso, infatti, di conseguire il pareggio di bilancio in un arco temporale più breve di quanto si sarebbe potuto concordare a Bruxelles. È probabile che le implicazioni di questa scelta non siano state comprese, al momento della firma, da Berlusconi, notoriamente affaccendato in altre vicende. Non si capirebbe altrimenti la sua richiesta, reiterata fino alla vigilia dell"approvazione dei tagli, di reagire alle sconfitte elettorali e referendarie con più spesa pubblica e con una riforma fiscale in disavanzo.
È certo, invece, che la portata dell"operazione è stata chiara fin dal primo momento a Tremonti che l"ha voluta, ritenendola probabilmente l"unica via per arginare le richieste di maggiori spese da parte degli altri ministri e dello spesso premier.
Al momento, come ha acutamente commentato Mario Monti sulle colonne del Corriere della Sera, il super ministro dell"Economia sembra aver vinto, “con raffinato piacere” la sua battaglia del numeratore (cioè del contenimento del debito), “piacere che in parte è consistito nel far slittare sul prossimo governo” il costo politico del grosso delle misure, che entreranno in vigore nel 2013 e il 2014, cioè dopo le elezioni politiche.
La vittoria nella battaglia del numeratore, sempre che il Parlamento non modifichi i connotati della manovra, rischia di essere, però, la classica vittoria di Pirro. Infatti, se il denominatore, cioè il Pil, non cresce, la riduzione del numeratore (il debito) non risolve il problema della finanza pubblica, anzi lo aggrava perché i tagli della spesa hanno effetti recessivi.
Senza crescita, dunque, malgrado le reiterate manovre correttive di finanza pubblica, i nostri conti rischiano di non tenere. In questo quadro la decisione di posporre di un biennio gli aggiustamenti di bilancio più pesanti può tradursi in un boomerang perché, come insegna l"esperienza di questi mesi, il solo annuncio di impegni futuri spinge i mercati finanziari a richiedere un più elevato premio di rischio per chi non realizza subito tali impegni.
L'aumento dello spread (cioè del differenziale sui tassi di interesse) fra i nostri titoli di Stato e il bund tedesco ha già raggiunto i massimi storici e soltanto previsioni di crescita più sostenuta potrebbero rassicurare gli investitori.

Purtroppo il tema della crescita non è nelle corde di Giulio Tremonti, sia quando adotta, come oggi, la linea del rigore, sia quando, come ieri, ha messo in atto con disinvoltura pratiche di finanza creativa.

Si potrebbe scrivere un libro sulle decisioni sbagliate del super ministro dell"Economia: dalla Tremonti bis, alla soppressione della dual income tax, dalle decisioni di condoni fiscali, alle più recenti cancellazioni delle misure sulla tracciabilità. Non è un caso, quindi, se l"Italia non cresce ormai da dieci anni, otto dei quali segnati dalla presenza di Tremonti al ministero dell"Economia. È ora, dunque, di fare un bilancio e questo bilancio risulta ampiamente negativo. Le gravissime difficoltà in cui versa il paese non dipendono, naturalmente, soltanto dal governo italiano.

Pesanti sono le responsabilità dell"Europa, egemonizzata da troppi anni da governi di destra che sembrano aver perso, nella gestione delle conseguenze della crisi finanziaria globale, il senso stesso della missione dell"Unione.

Restano però senza attenuanti le scelte rinunciatarie dell"esecutivo Berlusconi che non ha saputo neppure approfittare della novità rappresentata dall"avvio del cosiddetto semestre europeo. Per l"Italia sarebbe stato essenziale aggrapparsi il più possibile alla nuova governance europea che ha posto, in modo molto più incisivo del passato, l"obiettivo della crescita. Il Piano nazionale delle riforme presentato dall"Italia è, invece, privo di ambizioni e vuoto di impegni concreti.

Per non disturbare il proprio blocco sociale di riferimento il governo, infatti, continua a tollerare l"evasione, rinunciando a risorse preziose per investire nella crescita, non fa nulla per immettere più concorrenza nei servizi e nelle professioni e non adotta nessuna politica industriale per imboccare il sentiero della via alta alla competitività. L"assenza di qualsiasi politica in grado di innalzare il trend della crescita potenziale, rende ancora più intollerabili le specifiche misure contenute nella manovra. I soli a essere colpiti sono ancora una volta i settori più deboli della società, i lavoratori dipendenti e i pensionati.

Con i tagli alle pensioni, alla sanità, alle Regioni e agli enti locali, a cui si aggiungono quelli all"assistenza previsti dalla legge delega sul fisco, si istituisce una sorta di patrimoniale sui cittadini meno abbienti che nei prossimi anni dovranno mettere mano ai loro modesti risparmi per far fronte ai tagli alla spesa sociale, tagli che, insieme all"aumento dell"Iva (aumento che colpirà, ancora una volta, chi ha di meno) serviranno a fare manovra.

La riduzione dell"imposizione diretta da realizzare con tre aliquote (20, 30 e 40 per cento) resta dunque una promessa priva di credibilità. Comunque, poiché gran parte dei lavoratori a reddito medio già paga un"aliquota del 30 per cento, i veri beneficiari della riduzione Irpef sarebbero i contribuenti a reddito alto. A ben vedere una virtù questa manovra ce l"ha: è quella della chiarezza, è una manovra chiaramente di destra, anche nelle sue promesse propagandistiche.

Tratto da www.rassegna.it
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