“I giovani italiani sono precari nella crescita e disoccupati nella crisi”, sintetizza Marco Revelli nel suo recente “Poveri, Noi”. Dagli anni novanta in poi, quella del cosiddetto conflitto generazionale e’ stata una delle retoriche predilette da una nuova leva di economisti e tecnocrati decisi a farla finita con tutte le certezze sociali del Novecento. Per salvarsi e per strappare una vita almeno dignitosa – questa la ricetta che suggerivano – i “giovani” avrebbero dovuto presentare il conto ai loro genitori impiegati, operai e pensionati: nel discorso comune i diritti sono diventati cosi’ privilegi, le garanzie dei penultimi ostacoli al successo degli ultimi e le “riforme” interventi che solo raramente aprivano occasioni per veri progressi sociali. Capolavoro estremo di questa retorica, l’aver convinto parte dell’opinione pubblica che il lavoro operaio rappresentasse una condizione di privilegio (convinzione che crolla miseramente quando in tv arriva qualcuno che e’ in grado di raccontare l’impensabile crudezza del lavoro operaio). Ma l’esito della duratura egemonia di quell’idea di conflitto generazionale e’ stato nemmeno a somma zero, ma addirittura negativo: in altre parole non e’ andata bene ne’ per quelli considerati come i garantiti – che la retorica voleva asserragliati nelle tante fortezze “ sociali” da espugnare – ne’ per quelli che ereno considerati gli esclusi, ovvero i giovani ascari che dovevano partire all’assalto di quelle stesse fortezze. In un economia declinante, una flessibilita’ distorta e miserabile si e’ risolta in precarieta’ strutturale dei segmenti piu’ deboli del mercato del lavoro, mentre i diritti – ma soprattutto il reddito e la posizione sociale – di quelli considerati come forti sono stati ulteriormente corrosi.
Il Re è Nudo: la Grande Recessione cambia tutto
Altro effetto collaterale dell’egemonia di questa retorica è stata l’incapacità di elaborare un discorso autenticamente progressista sulla questione generazionale. Per lungo tempo, il fatto che fossero i corifei della vulgata conservatrice ad utilizzare strumentalmente la condizione di debolezza sociale delle giovani generazioni ha reso l’argomento politicamente sospetto agli occhi di chi intendeva difendere i diritti sociali fondamentali. Intanto però la questione generazionale si stava allargando ed approfondendo, come dimostrato dalla sua definitiva esplosione con l’irrompere della Grande Recessione. Le giovani generazioni, sovrarappresentate nel lavoro atipico ed escluse dalle tutele tradizionali, hanno sostenuto gran parte dei costi della crisi. Come estesamente documetato qui su Molecole, il risultato è il riaffacciarsi della disoccupazione giovanile di massa, la precarizzazione ulteriore di chi un rapporto con il mercato del lavoro riesce a conservarlo, l’impoverimento e la disperazione sociale di masse “giovanili” sempre piu’ ampie. In queste condizioni, la soluzione della questione generazionale non può che trovarsi in cima all’agenda di chiunque si batta per una fuoriuscita progressista dalla Grande Recessione.
Riformulare la questione generazionale
Ma ancor prima, è urgente la sua riformulazione: al di là dell’immagine ingannevole offerta dalla vulgata tardo novecentesca, la “questione generazionale” è infatti la manifestazione più dolorosa di un paese nel quale i livelli di diseguaglianza sociale hanno ormai raggiunto vette intollerabili. E dove un colossale spostamento di risorse dagli investimenti produttivi alle rendite ha generato una società inospitale per chiunque vi si affacci con la sola ricchezza del proprio potenziale produttivo. Che sia poi la generazione più qualificata della storia nazionale – e in particolare chi ha poco da guadagnare dai circuiti ereditari dell’opprimente familismo italico – ad essere sacrificato sull’altare di un modello sociale platealmente fallimentare aggiunge, se possibile, amarezza ad amarezza a quei milioni di giovani (adulti) italiani che si sentono “indesiderati” nel proprio paese. Come indesiderata e’ la loro potenziale apertura al cambiamentoin quello che produciamo e nel modo in cui lo facciamo, nel rapporto con il lavoro e con la sua intelligenza, nella visione che si ha del funzionamento delle istituzioni, nel modo di pensare le relazioni fra i generi. Dal 2008 il Re è nudo: un paese conservatore e retrivo ha mostrato il suo vero volto, prima abilmente dissimulato, ai suoi cittadini più “giovani”. Al cuore della crisi la questione generazionale è divenuta quindi la via maestra per porre le questioni non più rinviabili di una maggiore eguaglianza sociale e di un nuovo modello di sviluppo.
Fare società per costruire il cambiamento
Ed una riformulazione profonda della questione generazionale è in parte il senso dell’impegno di molte delle reti e dei social media generazionali che sono emersi e si stanno consolidando negli ultimi tempi. La rappresentazione di nuove generazioni disimpegnate è quanto mai inaccurata: il dinamismo molecolare delle loro forme di aggregazione – politica, sociale, professionale – ha preso velocità. La giornata di mobilitazione de “Il Nostro Tempo è adesso” dello scorso 9 Aprile – promossa da reti ma partecipata da singoli: una novità rilevante in materia di manifestazioni a tema sociale – ha posto il problema di una nuova questione generazionale che non assomiglia più a quella annunciata dalla vulgata tardo novecentesca (i giovani – gli ultimi – sono esclusi per via dei lavoratori dipendenti adulti – i penultimi – e dei loro diritti che in realta’ sono privilegi) ne tantomeno a quella propagandata dagli imprenditori del mero ricambio anagrafico (date a noi giovani il potere, a prescindere da quello che vogliamo fare: anzi, in realtà, non vogliamo fare un bel niente). Ad essere sceso in piazza è il rifiuto di una parte consistente delle nuove generazioni nei confronti di un’Italia miserabile – fatta di diseguaglianze sociali intollerabili, di un’economia arretrata e corrotta e di un conservatorismo anacronistico e pervasivo – e la speranza costruttiva di un’Italia più giusta e umana. Ora sta a noi approfondire la comprensione della nuova questione generazionale, rendendola comprensibile e mobilitante alla testa e al cuore di chi dal messaggio del 9 aprile è stato solo sfiorato.