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Da Bush a Obama, da Friedman a Krugman

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L’assegnazione del premio Nobel per l’economia a Paul Krugman segna, simbolicamente, la chiusura della parabola aperta nel 1976 dall’altro Nobel a Milton Friedman. E siccome le opere per le quali Paul Krugman ha avuto il riconoscimento sono di anni fa, si può pensare che in realtà siano stati premiati il suo insegnamento universitario attuale e la sua pluriennale opera di critico militante sul New York Times. Ancora pochi giorni e potrebbe succedere che come Reagan aveva incarnato la sostanza politica del pensiero friedmaniano, un nuovo presidente degli Stati uniti venga a incarnare l’uscita dal tunnel neoliberista.

Le crisi da cui Reagan doveva sollevare il suo paese erano quella politico-istituzionale (la vergogna del Watergate e le dimissioni dei corrotti Richard Nixon e Spiro Agnew), quella militare (la sconfitta in Vietnam), quella diplomaticostrategica (la vittoria dei sandinisti in Nicaragua e dei khomeinisti in Iran), quella energetica (la crisi petrolifera seguita alla Guerra del Kippur), quella economica (la stagflazione, con i disoccupati al 10%). Quelle che stanno di fronte a Barack Obama sono diverse, anche se ci sono le guerre non vinte in Afghanistan e Iraq, i problemi energetici inseriti nel contesto dei cambiamenti climatici, e soprattutto un crollo finanziario epocale le cui ripercussioni sociali non sono ancora del tutto dispiegate. Non si può sapere dove porterà la probabile uscita dal neoliberismo; la fine della sua versione «bushista» è però, in sé, una buona cosa.

 

Negli ultimi mesi, l’attenzione del pubblico è stata catalizzata dai grandi nomi – Bear Stearns, Fannie Mae e Freddie Mac, Lehman Brothers, Merrill Lynch, AIG, Washington Mutual… – le cui vicende hanno scandito il procedere del disastro socio-finanziario negli Stati uniti. Due tratti hanno caratterizzato le cronache giornalistiche. Quello metonimico che, riducendo realtà complesse ai simulacri di nomi simbolici (Wall Street contrapposta a Main Street), impedisce che le parole diano poi conto delle materialità in cui il disastro si invera. E le somme di denaro facenti capo a ognuno degli istituti investiti dalla crisi, salvati o sommersi che siano a questo punto, sono talmente enormi da diventare entità astratte, inattingibili dall’esperienza delle persone comuni. L’altro tratto è intrinseco alla retorica che gioca sull’opposizione Wall Street/Main Street, puntando il dito contro la prima e versando lacrime di coccodrillo per la seconda. Nella retorica che impregna il linguaggio politico e giornalistico Main Street sta per la «gente comune», l’americano medio lavoratore cui ogni politico rende omaggio, a parole, nell’intento di apparire «comelui », come uno con cui lui possa identificarsi al momento del voto.

 

È quasi paradossale lo scarto tra l’ideologia, che continua a valorizzare l’uomo comune con i suoi «piccoli» valori, e la società oligarchica creata dall’alleanza tra politica ed economia. Si pensi ai terribili dieci minuti (sui trentasei dell’intera allocuzione) che Sarah Palin ha dedicato a sé, alla sua famiglia e ai suoi genitori nel discorso alla convenzione repubblicana per poter apparire una donna e madre «come tutte». Oppure all’uso smodato della figura di «Joe l’idraulico» fatto da McCain nell’ultimo dibattito con Obama. In realtà, il Samuel J. Wurzelbacher in carne e ossa non coincide per nulla con l’immagine emblematica che McCain ha costruito demagogicamente sulla sua pelle.

 

Naturalmente, il registro e la retorica del discorso populistico sono presenti anche nell’oratoria di Barack Obama. Sono grandi, però, le differenze sia nei contenuti, sia negli orientamenti. Nelle ultime settimane, dopo che hanno preso forma i risvolti sociali della crisi, il candidato democratico è stato molto più rigoroso e concreto dei suoi rivali nel delineare gli interventi in materia di politiche economiche e sociali.

 

Quando Obama parla – come ha fatto il 13 ottobre – dell’urgenza di «creare posti di lavoro », risponde a un dato di fatto preciso: oltre 750.000 lavoratori hanno perso il posto nel corso di quest’anno. Il tasso ufficiale di disoccupazione è passato dal 5,1 di marzo al 6,1 di settembre e, già ora al 9 per cento in alcuni stati, passerà alle due cifre nel 2009. Quando propone di permettere ai lavoratori di ritirare, prima del pensionamento, fino a 10.000 dollari dai loro depositi pensionistici (IRA e 401k, in particolare) senza pagare le penali attualmente previste per tali eventualità, ha in mente l’avvenuta caduta dei redditi e l’indebitamento delle famiglie (che nel 2007 stava al 132% rispetto ai redditi). E visto che le insolvenze nel pagamento delle rate dei mutui per la casa si sono impennate negli ultimi mesi, propone una tolleranza di 90 giorni prima dell’azione di pignoramento a carico dei morosi. Infine, memore di uno degli aspetti allora più controversi, ma poi tra i più significativi del New Deal, propone che le autorità finanziarie centrali facilitino a quelle statali e locali l’impegno di fondi per creare occupazione ricostruendo ponti, strade e scuole.

 

Allo stesso modo, quando dice che ridurrà le tasse per il 95% degli statunitensi e che intende «distribuire la ricchezza» (spreading the wealth), Obama sembra avere chiari l’andamento dei redditi negli ultimi anni e la mostruosa sperequazione nella distribuzione sociale della ricchezza a cui è giunta la società statunitense. Le sue parole hanno scatenato le accuse di socialismo nei suoi confronti da parte di McCain (cui i socialisti fabiani americani hanno puntigliosamente ribattuto cheObama«non è unsocialista…ma un democratico centrista, moderatamente liberal»). Mala realtà cui nessun repubblicano fa mai riferimento è che quasi l’85% della ricchezza delle famiglie è concentrato nelle tasche del 20% più ricco della popolazione (con il 5% dei più ricchi tra i ricchi che ne detiene il 56%).

 

Al discorso su redditi e tasse si collegano poi quelli relativi all’occupazione e al rapporto tra economia, mercato azionario e pensioni. I redditi delle famiglie, tenuto conto dell’inflazione, sono diminuiti tra il 2000 e il 2007, con un calo pronunciato per le tante al fondo della scala sociale (-6%) e con incrementi superiori all’1% per le poche al vertice. Le tasse, nei piani di Obama, dovranno aumentare solo per chi ha redditi superiori a 182.400 dollari annui. Non sono redditi da classe media: nel 2007, quelli medi reali delle famiglie erano pari a 50.233 dollari annui. E quelli degli «idraulici dell’Ohio», come ricordava Paul Krugman in un pezzo polemico nei confronti della demagogia di McCain, erano pari a poco meno di 48.000 dollari. Inoltre, mentre i salari sono cresciuti del 2,8% nell’ultimo anno, l’indice dei prezzi al consumo è salito del 4%. Il discorso sulle pensioni non è meno grave: è diminuito il numero delle aziende che forniscono programmi pensionistici ai loro dipendenti e, soprattutto, il loro aggancio al mercato azionario ha esposto milioni di persone a perdite secche di valore. Per quanto riguarda l’occupazione, i primi lavoratori a essere stati colpiti dall’esplosione della «bolla» dei mutui sulla casa e dalle sue conseguenze sono stati quelli dei settori più direttamente interessati: edilizia e mercato immobiliare, istituti finanziari e banche. Ma la contrazione dei consumi individuali e familiari, a cui si collega l’indebitamento legato all’uso delle carte di credito, ha ormai cominciato a ripercuotersi sui settori che producono beni di consumo durevoli. Nel caso delle auto, il costo crescente del petrolio aveva già provocato il crollo nella produzione dei suv, ma poi la crisi si è allargata: a settembre le vendite di auto sono diminuite del 26,6% rispetto a un anno fa, nonostante una crescita degli incentivi pari al 19%, e centinaia di concessionarie hanno chiuso i battenti. Manon c’è solo la disoccupazione. A settembre i sottooccupati noti erano già saliti a 1,5 milioni, rispetto ai 400.000 di un anno fa. Tra questi sono presenti molti lavoratori sia della ristorazione e degli alberghi, per la frenata nelle spese «voluttuarie» e del turismo, sia della grande distribuzione, per il calo anche delle spese per cibo e vestiario (sono diminuite anche quelle per le medicine). Del resto, il tasso di povertà è passato dall’11,3 al 12,5% e quello delle working families povere è salito al 28%.

 

Per questo, gli analisti di parte democraticoprogressista hanno chiesto che gli interventi federali fossero indirizzati non solo a salvare le banche e i grandi affaristi, ma a innalzare i redditi e creare una ripresa dei consumi. Di fatto, le proposte del Center for Economic and Policy Research di «aiutare le amministrazioni statali e locali, estendere i sussidi di disoccupazione, restituire parte del prelievo fiscale alle persone di reddito basso, accelerare le spese per le infrastrutture e sostenere le azioni per il risparmio di energia» sono largamente entrate nei programmi d’intervento di Obama.

Questo è keynesismo, dicono alcuni, soddisfatti o inorriditi a seconda dell’angolo visuale: un ritorno agli anni Trenta e agli interventi che Roosevelt dovette attuare di fronte alla depressione avviata dal crollo della Borsa del ’29 e non fronteggiata dal suo predecessore. Quello che si impone ora è non attendere anni per intervenire, come allora. «Non è il momento di preoccuparsi per il deficit», ha scritto Krugman, aggiungendo che «il governo federale può fare molto per rimettere in moto la macchina dell’economia». La necessaria spesa in deficit a cui allude Krugman non è quella del «keynesismo militare» di Bush, che in questi quasi otto anni ha fatto salire il deficit alle stelle, ma è quella propriamente keynesiana, che «amplia il sussidio ai disoccupati, aiuta le famiglie in difficoltà, mette denaro nelle mani di chi ne ha bisogno E dà aiuto di emergenza alle amministrazioni statali e locali». E Obama sembra essere d’accordo.

Tratto da www.ilmanifesto.it
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