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Pomigliano, la fabbrica neofordista

Pomigliano, la fabbrica neofordista

28/06/2010

L’accordo Fiat di Pomigliano, al di là del risultato del referendum, apre allo studioso molti campi di riflessione. Il giurista, infatti, avrà di che ragionare attorno alla costituzionalità degli articoli 14 e 15 del testo, che prevedono che qualsiasi comportamento, collettivo o di singoli dipendenti contro l’accordo stesso (incluso quindi l’aderire a uno sciopero o proclamarlo), darà luogo a specifiche sanzioni: per i sindacati l’interruzione dei contributi e dei permessi sindacali, mentre per il lavoratore si potrà arrivare al licenziamento.

Gli esperti di relazioni industriali, invece, avranno molti punti da approfondire, primo fra tutti la disciplina degli straordinari e dei recuperi, che prevede lo svolgimento di tali attività anche al posto della pausa per il pasto, 30 minuti alla fine di ciascun turno. I critici dell’accordo fanno notare che ciò è in contrasto con la Direttiva europea sull’orario di lavoro del 2003 (che all’art. 4 prevede, per prestazioni superiori alle sei ore di lavoro consecutive, una pausa), oltre che con la legge 66 del 2003, che fa espresso riferimento a una pausa per la mensa.

Il sociologo del lavoro, dal canto suo, non potrà non concentrarsi sulla trasformazione dell’organizzazione di fabbrica che l’accordo prevede e che renderà lo stabilimento del napoletano il più neofordista della galassia Fiat. Su questo, dunque, ci concentreremo nei paragrafi successivi.

Il modello Wcm
L’articolo 5 dell’accordo, dal titolo “Organizzazione del lavoro” (scarica il testo), sancisce l’introduzione di un nuovo modello organizzativo, il Wcm (World Class Manufacturing) e il sistema Ergo-Uas (leggi l'allegato con la descrizione). Il primo termine indica una filosofia, nata dalla produzione snella e dal toyotismo, che prevede il coinvolgimento di tutti i lavoratori, dal manager all’operaio, nel processo di miglioramento continuo del prodotto. L’obiettivo è di produrre automobili sempre più soddisfacenti per i clienti, ai costi migliori (J. Todd, World-Class Manufacturing, McGraw-Hill, London, 1995). Il Wcm pone l’accento sul miglioramento ergonomico delle postazioni lavorative per aumentare la produttività, sulla riprogettazione delle postazioni di lavoro al fine di ridurre la necessità dell’operaio di spostarsi per prendere i pezzi da montare e ridurre in tal modo i tempi del ciclo produttivo, ma soprattutto sul lavoro in team, ai quali è demandata l’attività di problem solving.

Per essere produttori di classe mondiale ci vuole molta partecipazione da parte dei lavoratori: alla Toyota ogni anno arrivano circa un milione di proposte di miglioramento, tutte studiate con attenzione dalla direzione, spesso adottate e premiate. Non si può dire che in Fiat, almeno per ora, esista una filosofia comparabile.

L’Ergo-Uas, dal canto suo, costituisce una metodologia già sperimentata nello stabilimento di Mirafiori, per raggiungere gli obiettivi del Wcm. Il sistema, descritto nell’allegato 2 all’accordo, si basa sulla ridefinizione dei carichi ergonomici derivanti dai nuovi assetti delle postazioni di lavoro e su un sistema di studio dei tempi – peraltro molto simile concettualmente a quello propugnato dall’ingegner Taylor all’inizio del 900 – che grazie all’informatica permette di plasmare completamente il ciclo lavorativo e i gesti degli operai al fine di ottenere, almeno in linea di principio, la produttività massima. Taylor chiamava ciò la One Best Way, il modo migliore di lavorare, che andava inculcato in ciascun operaio.

Un’auto al minuto
Wcm e Ergo-Uas entreranno in funzione a Pomigliano solo tra due anni, quando lo stabilimento, dopo un lungo periodo di cassa integrazione, sarà stato completamente riconvertito per la produzione della Panda e il layout del sito rivoluzionato per ottenere l’obiettivo di produrre 280mila auto, una al minuto, su una singola linea di produzione. Ma l’accordo ha già deciso che le “soluzioni ergonomiche migliorative” che verranno implementate a fine ristrutturazione porteranno a una riduzione delle pause del 25% (anziché due di 20 minuti, tre di 10 minuti, guarda caso il valore minimo previsto dalla citata Direttiva europea). Quei 10 minuti generano un aumento di produzione di circa 6.500 auto l’anno. In teoria ciò si dovrebbe ottenere a parità di fatica, in quanto il sistema di metrica del lavoro “premia” l’operaio che svolge una attività più dura con un surplus di tempo di riposo, aggiunto all’operazione, che va dall’1 al 13% .

Ma le cose non paiono stare proprio così: un operaio di Mirafiori addetto alla produzione della MiTo, ove il metodo è in uso, intervistato da Repubblica, rivela che quasi tutte le lavorazioni che si svolgono in quella fabbrica prevedono il livello minimo di pausa dell’1% (con il vecchio sistema erano al 5%). La saturazione del lavoro, quindi, arriva nelle fasi attive al 99%: il rischio che la fatica aumenti è tutt’altro che teorico, e la fabbrica Wcm somiglia pericolosamente alle strutture tayloriste degli anni sessanta.

Un’inchiesta realizzata a Mirafiori, ad esempio, dimostra che il 60% degli operai svolge compiti ripetitivi, che si esauriscono in circa 60 secondi o poco più, mentre per l’80% delle donne il lavoro è ripetitivo e di estrema semplicità (si veda, ad esempio, F. Garibaldo, A company in transition: Fiat Mirafiori of Turin, in International Journal of Automotive Technology and Management, vol. 8, n. 2, 2008, pp. 185-193).

Taiichi Ohno
Alla base della partecipazione dei lavoratori, secondo le idee originali di Taiichi Ohno, l’ingegnere che negli anni 50 progettò il Toyota Production System, vi è il principio del Jidoka (traducibile con “autonomazione”), cioè l’automazione con un “tocco umano”: un sistema che attribuisce larga autonomia al lavoratore il quale, se si accorge che qualcosa non va nella produzione, può fermarla senza chiedere pareri o permessi. Solo così, infatti, si salvaguarda sempre la qualità del prodotto.

Una procedura kafkiana
Il principio dell’autonomazione non ha avuto sinora larga applicazione fuori del Giappone: nelle fabbriche occidentali fermare la produzione richiede l’intervento di livelli decisionali ben sopra l’operaio. Nella fabbrica che si candida a diventare eccellenza produttiva mondiale vi dovrebbe essere, per i lavoratori, la possibilità di migliorare l’organizzazione del lavoro, partecipando alla progettazione del sistema ergonomico della fabbrica. Dire la propria sul lavoro è un elemento di controllo, che permette di adeguare le mansioni alle persone. Ma la fabbrica Wcm “made in Torino” cerca l’esatto contrario, deve adeguare le persone al lavoro. È qui, in fin dei conti, che la proposta della Fiat si scopre smaccatamente taylor-fordista. Ai lavoratori, infatti, i tempi standard vengono imposti dall’esterno, sulla base di una ricostruzione delle mansioni e dei movimenti effettuati dalla direzione con sofisticati metodi informatici. L’unica partecipazione che viene lasciata agli operai consiste nella possibilità di avanzare un reclamo quando i tempi assegnati sono troppo stretti. Ma la procedura da seguire (descritta a pag. 19 dell’allegato tecnico all’accordo) pare kafkiana: il lavoratore deve dapprima lamentarsi con il proprio responsabile, il quale, se decide di prendere in considerazione la protesta, la passa all’ente preposto allo studio dei tempi, che eseguirà, entro sette giorni, un controllo dell’operazione contestata, comunicando il risultato per via gerarchica. Se la risposta non soddisfa l’operaio, questi può avanzare una nuova protesta, questa volta scritta, tramite un rappresentante della Rsu. Anche in tal caso si avrà una risposta scritta. Se anche questa seconda volta l’esito è negativo, allora il malcapitato potrà appellarsi ad una speciale commissione che deve decidere in cinque giorni. Comunque vada, in tutto questo periodo rimane in vigore il tempo assegnato dalla Fiat (che l’operaio da cui parte la protesta non riesce a rispettare, altrimenti perché si sarebbe imbarcato in tante vicissitudini?) e nessuno può intraprendere azioni “unilaterali”: il guidatore non va mai disturbato.

Più fatica
Nel libro Il tubo di cristallo: modello giapponese e fabbrica integrata alla Fiat auto, scritto nel 1993 da Giuseppe Bonazzi, l’autore si domandava in che modo l’azienda avrebbe potuto ottenere dagli operai la partecipazione necessaria a far funzionare il nuovo metodo produttivo. La chiave di volta veniva individuata nella riduzione dello sforzo fisico, una novità che assumeva anche un valore simbolico: attenuando la penosità tipica del lavoro operaio, se ne aumenta il decoro, la dignità e il comfort, attivando una volontà di partecipazione e di coinvolgimento nelle innovazioni.

Oggi questa esigenza non sembra più all’ordine del giorno, e lavorare nella nuova Pomigliano richiederà più fatica. Per dirla con Luciano Gallino, “occorre che le persone lavorino come robot, ma non possono essere sostituite da robot”.

Una storia che raccontava già Henry Ford nel 1917; solo che si pensava fosse ormai superata.

Tratto da www.rassegna.it
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