Che ingenui: pensavamo che il crollo del 2008 - che ha dimezzato le borse e precipitato l'occidente nelle più grave recessione dagli anni Trenta - segnasse la fine di trent'anni di neoliberismo. I mercati e le banche private erano stati salvati allora dai 700 miliardi di dollari scuciti dal presidente Bush, e sono stati salvati ora dai 900 miliardi di euro di Unione europea e Fondo monetario. Ma il soccorso pubblico ai disastrati della finanza privata ha ridato vigore all'offensiva del «libero mercato», la speculazione attacca gli stati, la spesa pubblica diventa il colpevole. Quasi ovunque la crisi sposta la politica a destra: il capitalismo è nella sua fase ultrà.
Negli Usa, unico grande paese con un governo che estende l'intervento pubblico, il partito repubblicano del Maine, per le elezioni al Congresso - come notava Paul Krugman sul New York Times - ha un programma «antistatalista» che chiede l'abolizione della Federal Reserve (la banca centrale Usa) e del Ministero dell'istruzione. In Grecia la crisi finanziaria - seguendo le imposizioni di Bruxelles e Washington - è tutta pagata da spesa pubblica e salari, avviando l'economia alla depressione. In Germania Angela Merkel chiede rigore e rinunce. In Gran Bretagna, rendere più piccolo lo stato è uno dei pochi punti di accordo della coalizione tra conservatori e liberaldemocratici.
In Europa il Rapporto Monti rilancia le promesse mancate del «mercato unico». In Italia a guidare l'offensiva sono gli editoriali del Corriere della sera, mentre il ministro Tremonti prepara tagli a stipendi pubblici e pensioni, e progetta condoni per l'abusivismo. Le contromisure ragionevoli - controllare la finanza, un'imposta sui patrimoni, tasse ambientali - non hanno la forza politica di farsi sentire.
Per il capitalismo ultrà, è l'occasione per riportare indietro - agli anni Trenta, appunto - l'orologio della storia, per cancellare l'idea che esistano diritti sociali e beni comuni, che scuola e salute siano servizi da offrire a tutti, non da vendere a pochi. Per far dimenticare gli anni in cui gli orari di lavoro diminuivano e i salari permettevano una vita dignitosa.
E' la storia già raccontata da Naomi Klein in Shock economy (Rizzoli, 2007). Il capitalismo ora funziona con stati di emergenza. Se non sono colpi di stato (l'America latina da Pinochet in poi) o guerre (Iraq, Afghanistan, Israele), sono disastri ambientali o crisi finanziarie. Sono occasioni, costruite con cura, per colpire la democrazia, spostare poteri, allargare i mercati, assicurare i profitti. E per costruire - proprio attraverso le emergenze, e il loro uso mediatico - il consenso anche tra quell'80 per cento di cittadini che viene espropriato e impoverito. Nel nostro piccolo, abbiamo avuto Genova 2001, grandi opere e terremoti che hanno travolto i diritti e creato affari e corruzione, Draquila e la Protezione civile di Bertolaso. La farsa l'abbiamo già vista, la tragedia questa volta potrebbe venire dopo.