Sì, la discussione è avviata, la macchina pubblica della rivalutazione è in movimento, ma certo le posizioni sono ancora molto lontane e non è chiaro quando e quanto la moneta cinese, lo yuan renminbi (Rmb), modificherà il suo cambio con il dollaro americano, rimasto fisso per oltre due anni.
Ci sono stati dibattiti a porte chiuse e aperte dove alcuni esperti stranieri, scelti con le pinze, sono invitati a difendere i motivi della rivalutazione in toni franchi ma ragionevoli per i cinesi.
La prima reazione del pubblico, degli economisti e dei vari ministeri è spesso irata, viscerale. In sostanza dicono: cosa fanno gli americani? Prima ci chiedono i soldi in prestito e poi, quando si tratta di restituirli, ora, pretendono lo sconto e non lo chiedono nemmeno per favore ma battendo i pugni sul tavolo?
Oppure dicono: gli americani vogliono risolvere il problema di disoccupazione loro creando la disoccupazione da noi, e in più minacciano guerre commerciali? Se è guerra che vogliono, guerra avranno.
La questione è diventata sentimentale, di principio, politica, non economica, di come aiutare a rimettere in moto l’economia americana, europea, asiatica per rimettere in moto l’economia del mondo.
Quando gli animi si placano, allora alcuni ammettono che certo la rivalutazione non è la panacea ma qualcosa si potrebbe fare. Il problema è che paradossalmente il governo cinese ha più difficoltà a rivalutare quanto più l’America lo chiede in pubblico.
Se Washington non avesse sollevato la questione apertamente forse lo yuan avrebbe già cambiato di prezzo rispetto al dollaro, spiegano economisti e alti funzionari di qui.
In altre parole oggi Pechino, in mezzo al guado tra dittatura e democrazia, sta cercando di creare un consenso popolare per la rivalutazione. Ma molti temono la fine del cambio fisso che sanno costerebbe milioni di posti di lavoro tra le aziende esportatrici. Queste hanno margini di profitto minimi, e un apprezzamento del 10%, quello ora ipotizzato, rischierebbe di spazzare via dal mercato migliaia di fabbriche.
La creazione del consenso è questione difficile e lunga a Pechino, tanto più difficile in quanto in questi giorni la Cina ha già guadagnato tempo con l’amministrazione Usa.
Il presidente Hu Jintao incontrerà a metà mese a Washington il collega Barak Obama e gli porterà in dono le attuali pressioni cinesi contro il nucleare iraniano. Non c’è motivo per due regali, l’Iran e il Rmb.
Il Rmb può essere giocato dopo, quando la situazione in patria sarà più favorevole, dopo che l’abbraccio tra Hu e Obama avrà rasserenato tanti animi.
Si tratta d’altro canto di un semplice contentino diplomatico, non certo di una misura strutturale. Il problema non è il Rmb ma la domanda interna che sta a partendo solo a fatica per la composizione strutturale della spesa cinese.
Il tasso di risparmio in Cina è di circa il 50%, ma la gente per risparmiare di meno dovrebbe avere un sistema di garanzie sociali che oggi non ha.
In Cina si paga tutto in contanti, dall’ospedale alla scuola per i bambini, e quindi tutti devono avere soldi da parte. Né le aziende stanno meglio, visto che le banche aprono e chiudono il credito a seconda del vento, risparmiano anche loro.
Da circa un anno si lavora freneticamente alla creazione di un sistema di garanzie sociali, ma perché cominci davvero a funzionare ci vorranno almeno dieci anni. Il mondo non può aspettare così tanto per l’apprezzamento del Rmb e quindi qualcosa si dovrà fare. Ma per prima cosa il pubblico cinese se ne dovrà convincere.