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RU486: la pillola che non c'è

23/02/2010

Il Mifegyne (RU486) è in uso in Francia da oltre 20 anni ed è già stato introdotto in quasi tutti i paesi europei e in molti paesi del mondo. Nel 2007 è stata presentata richiesta per l’autorizzazione all’immissione in commercio anche in Italia. In ossequio al principio di mutuo riconoscimento di farmaci già commercializzati in Ue, l’Aifa ha solo provveduto a definirne il prezzo e ad inquadrarne l’uso nella cornice delle leggi nazionali e, in particolare, della legge n. 194 del 1978, “Norme per la tutela della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. È importante ricordare che, in assenza di uno specifico quadro nazionale, il principio europeo di mutuo riconoscimento permette che qualsiasi farmaco, già commercializzato in altro paese Ue, venga legalmente importato e utilizzato sul territorio nazionale; cosa che in effetti stava già accadendo in Italia sin dal 2005.

 

 

 

L’intervento dell’Aifa è stato necessario per ribadire il divieto di prescrizione della RU486 al di fuori della legge n. 194-1978. Con il comunicato n. 120 in data 30 luglio 2009, l’Aifa ha deliberato l’autorizzazione all’immissione in commercio e, nel contempo, fornito alcune precisazioni. “Deve essere garantito il ricovero in una struttura sanitaria, così come previsto dall’articolo 8 della Legge n. 194, dal momento dell’assunzione del farmaco sino alla certezza dell’avvenuta interruzione di gravidanza, escludendo la possibilità si verifichino successivi effetti teratogeni [danneggiamenti del feto senza interruzione di gravidanza]”. Il trattamento deve avvenire sotto stretta sorveglianza del personale sanitario, a cui è demandato anche il compito di fornire corretta informazione sulla alternative disponibili, sui vantaggi e sui rischi comparati, sull’importanza dell’aderenza terapeutica. “Ulteriori valutazioni sulla sicurezza […] hanno indotto il Cda [dell’Aifa] a limitare l’utilizzo del farmaco entro la settima settimana di gestazione anziché la nona come invece avviene in gran parte d’Europa”.

 

 

 

L’Aifa è intervenuta in maniera equilibrata e prudente, e ha interpretato in modo impeccabile il suo ruolo, inserendo nel prontuario nazionale un farmaco già in uso in Europa e già in uso in modalità off-label anche in Italia; tuttavia dal 9 dicembre 2009, data della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della determinazione Aifa, il Mifegyne non è ancora disponibile negli ospedali, o lo è con forti difficoltà e disomogeneità territoriali.

 

Ai tempi tecnici per la predisposizione delle confezioni (su cui andranno applicati i bollini Aifa) e del foglietto illustrativo, si è aggiunto il dibattito sulle modalità di svolgimento della terapia, che non è ancora approdato a delle scelte condivise. Assodato il diritto soggettivo all’accoglienza in ospedale dall’inizio della terapia sino al suo completamento certo, è in discussione se si debba prevedere l’obbligo di ricovero, oppure se somministrazione, verifiche e conclusione del ciclo terapeutico possano avvenire con sedute ambulatoriali. Se intervenisse l’obbligo di un ricovero che coprisse l’intero ciclo terapeutico, lo stesso ricovero dovrebbe necessariamente essere di tipo ordinario e avere la durata di tre giorni (nel primo, la paziente assume il Mifegyne; nel secondo, prosegue l’effetto farmacologico; nel terzo, la paziente assume prostaglandina che, entro alcune ore, completa il percorso abortivo). Per l’aborto chirurgico il problema si pone in termini diversi, dal momento che la modalità di intervento (anestesia e aspirazione) permette di chiudere il ciclo terapeutico in un solo giorno in day-hospital.

 

 

 

Mentre il dibattito si svolge, l’aborto farmacologico rimane non accessibile nelle strutture del Servizio sanitario nazionale (Ssn), negando alle donne una soluzione meno invasiva dell’intervento chirurgico e praticabile senza il ricorso all’anestesia. La scelta sulle modalità di svolgimento della terapia dovrebbero rispecchiare unicamente i profili di rischio medico, e tener conto della ormai pluridecennale esperienza internazionale, che ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità ad inserire il Mifegyne tra i farmaci essenziali per la salute riproduttiva. A questo proposito, al dibattito manca uno dei riferimenti più importanti: una informazione chiara sulle modalità di svolgimento della terapia farmacologica nei paesi dove la RU486 è in uso da tempo.

 

 

 

Evitare un obbligo di ricovero non necessario, permetterebbe di cogliere un altro aspetto positivo, quello di un impatto anche psicologicamente meno invasivo: sia perché, come ricordava nel suo articolo Laura Ronchetti (“Invasione di campo sulla RU486 ”), l’assunzione di un farmaco rende meno dipendente la donna da interventi di terze persone (medici e personale sanitario) rispetto alla via chirurgica; sia perché tutela meglio lei e i suoi cari dallo stigma sociale in un paese, come il nostro, dove spesso i diritti della persona, pur formalmente attestati senza equivocabilità, nella realtà si trovano a dover scontare numerosi “filtri”. Tanto più che la legge n. 194 chiama anche al rispetto per la maternità consapevole, la dignità e la riservatezza (articolo 5).

 

 

 

Oltretutto, anche se la motivazione economica viene ovviamente dopo quella dell’adeguatezza terapeutica, permettere che possa essere evitato un ricovero ordinario di tre giorni, quando non effettivamente necessario, implicherebbe anche minori spese per il Ssn; e quelle risorse potrebbero essere investite in programmi di informazione e prevenzione sul territorio. La deospedalizzazione, con rafforzamento del day-hospital e soprattutto della cintura delle prestazioni socio-sanitarie diffuse, è uno degli obiettivi di riforma del Ssn.

 

 

 

Ma anche dovesse affermassi la prassi del ricovero ordinario, non è detto che la terapia diventi accessibile in tempi rapidi e, soprattutto, accessibile in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. Dopo l’inserimento nel prontuario farmaceutico nazionale, prima di divenire concretamente disponibile in ospedale, un farmaco “H” deve completare una trafila che può differire da regione a regione, e addirittura, all’interno di una stessa regione, da Asl ad Asl e da ospedale ad ospedale. Tra l’autorizzazione nazionale e la possibilità per il medico ospedaliero di utilizzare il farmaco si possono frapporre commissioni territoriali o locali di vario livello che presiedono ad altrettanti prontuari, con potere di filtro o addirittura di blocco per l’area di loro competenza. Criticato e da riformare, questo modello di governance della farmaceutica ospedaliera si è sinora impropriamente prestato al controllo (con razionamento) della spesa e alla gigantiasi della burocrazia. Nei prossimi mesi potrebbe prestarsi anche a far prevalere punti di vista localistici (anche a seconda della composizione delle commissioni regionali, di Asl e di Aziende ospedaliere) su un tema su cui il diritto della persona non può essere balcanizzato. E qui bisogna ricordare che, se viene a mancare la disponibilità del farmaco in ospedale, potrebbero verificarsi situazioni in cui non si può dar seguito a quella revoca dell’obiezione di coscienza dei medici che l’articolo 9 della legge n. 194 dispone per i casi di urgenza; non solo quelli a ridosso del limite temporale massimo per la terapia farmacologica, ma anche quelli in cui sono le condizioni psicologiche della donna a richiedere che l’intervento avvenga senza ritardi e senza complicazioni organizzative e burocratiche. Anche queste riflessioni sembrano completamente assenti dal dibattito.

 

 

 

Non sarà facile, ma ci si augura che le scelte dei prossimi mesi avvengano sgomberando il campo da preconcetti e valutazioni etico-morali. Non è mantenendo il più possibile gravosa e dolorosa la terapia, da utilizzare in funzione deterrente, che si può “educare” la persona di fronte a scelte così intime e pervasive sul corpo e sullo spirito, sul presente e sul futuro.

Tratto da www.ingenere.it
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