Nella campagna elettorale del 2008 Berlusconi aveva sposato il quoziente familiare. In seguito, visti i chiari di luna della crisi, gli accenti si erano spostati sull’Irap, da eliminare (o almeno diminuire). Adesso che si avvicinano le elezioni regionali, le due aliquote 23-33 sono sembrate – sia pure per lo spazio di un mattino - preferibili dal punto di vista pubblicitario, perché offrono un riferimento numerico che nello slogan del “quoziente familiare” manca. Ovviamente quoziente e flat tax sono due strade diverse ed incompatibili che hanno però un obiettivo simile: diminuire il prelievo fiscale sui redditi medio-alti ed alti.
Il quoziente presuppone però un sistema a scaglioni, con aliquote crescenti, e questi scaglioni devono essere numerosi, in modo tale che il contribuente che si colloca in uno scaglione alto possa scendere su uno più basso, grazie al coniuge con reddito più basso o, meglio ancora, privo di redditi (detto in termini più chiari, la moglie casalinga) e grazie ai figli minori. E’ ovvio quindi che se c’è uno scaglione unico fino a 100.000 euro il quoziente non serve più a nulla.
La flat tax invece si ispira all’ideologia della “economia dal lato dell’offerta”: bisogna ridurre le aliquote per incentivare il lavoro e la produzione, soprattutto dei lavoratori più qualificati con redditi alti; l’aumento del reddito che ne deriva finirà poi per beneficiare anche i più poveri. I redditieri con più di 75.000 euro potranno beneficiare di 200 euro ogni mille tra 75.000 e 100.000, e di 100 euro ogni mille oltre i 100.000. Peccato che si tratti di meno del 2% dei contribuenti (secondo i dati dell’Irpef 2007).
I lettori ricorderanno che la proposta delle due aliquote aveva caratterizzato la campagna elettorale di Berlusconi già nel 2001, ed era stata tradotta nella legge delega (n. 80) del 2003. Ma i due cosiddetti moduli di attuazione erano rimasti ben lontani dall’obbiettivo: dopo il secondo gli scaglioni erano quattro, con aliquote formali dal 23% al 43%. Va sottolineato il termine “formali” perché in realtà le aliquote effettive dei vari scaglioni erano ben più alte; nel primo scaglione esse crescevano dal 29,63% al 50,25%, per poi scendere al 39% e risalire al 45%. Nel secondo modulo le aliquote erano sempre più alte di quelle formali; ad esempio per un lavoratore dipendente con coniuge e due figli a carico esse salivano da 32,29% al 46,33%, per poi scendere al 43,5% ed infine al 43%.
Questo effetto era dovuto all’azione delle deduzioni decrescenti per tipologia di reddito e per i carichi familiari. Vediamo ad esempio la deduzione per lavoro dipendente di 7.500 euro (composta da 3.000 euro di deduzione eguale per tutti i redditi e 4.500 di deduzione specifica per un lavoratore dipendente che abbia lavorato tutto l’anno); fino a 7.500 euro la deduzione è piena; da 7.500 incomincia a ridursi di 28,65 per ogni 100 euro di aumento della remunerazione del lavoratore. E’ come dire che di fronte ad un aumento di 100 euro dello stipendio, l’imponibile aumenta di 128,65. Ovvero è come dire che l’aliquota marginale del soggetto va moltiplicata per 1,2865; insomma è come se la deduzione di 7.500 fosse fissa, ma le aliquote degli scaglioni fossero 29,63%, 37,37%, 39,94% ecc… Quando la deduzione termina (a 33.500 euro) il fenomeno sparisce e l’aliquota marginale formale dello scaglione coincide con quella effettiva.
Le modifiche introdotte dal governo Prodi con la finanziaria 2007 mantengono questa caratteristiche di aliquote effettive più alte di quelle formali, attenuandone la variabilità. Ha inoltre ridotto lievemente l’incidenza fiscale sui redditi bassi e medi, aumentandola (sempre leggermente) su quelli più alti. Proprio questo rende il compito di una eventuale intervento concreto sulla via della flat tax piuttosto difficile. Infatti Berlusconi e Tremonti non si possono permettere di aumentare il peso impositivo sui redditi bassi, e devono quindi prevedere deduzioni ampie (per un lavoratore con coniuge e due figli la deduzione deve essere nell’ordine di 20-25 mila euro). D’altra parte devono far scendere le stesse deduzioni per non incorrere in una perdita di gettito di proporzioni catastrofiche. L’aliquota unica non sarà quindi il 23% ma ben più alta (nell’ordine del 30%).
In sostanza l’obiettivo immediato della flat tax è banalmente propagandistico: comunicare l’idea che il governo voglia procedere ad una riduzione delle tasse. L’obiettivo vero è quello di una riduzione del prelievo sui redditi alti. Ecco un aspetto in cui alla distinzione tra destra e sinistra può attribuirsi un significato preciso.
Infatti la direzione nella quale bisognerebbe procedere è esattamente opposta: ridurre il prelievo (ed in particolare l’aliquota marginale effettiva) sui redditi bassi, ed aumentarla, eventualmente, sui redditi più alti (oltre i 150.000 euro, ad esempio). Sarebbe inoltre opportuno introdurre un trasferimento momentaneo per quei milioni di contribuenti che sono incapienti, cioè che non riescono a usufruire degli sgravi d’imposta, concessi a vario titolo, perché hanno un reddito basso.
Questo tipo di manovra fiscale non avrebbe solamente lo scopo di ottenere una maggiore equità redistributiva, in un paese dove la distribuzione del reddito è fortemente diseguale. Servirebbe anche a stimolare la partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto delle donne. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che la sensibilità dell’offerta di lavoro è maggiore a livello di redditi bassi piuttosto che a livello di redditi alti, e che questo è vero soprattutto per il lavoro femminile. Tra l’altro questa è una delle ragioni per cui sistemi impositivi come il quoziente o lo splitting non sono indicati nel nostro paese; oltre all’aspetto equitativo infatti, questi sistemi scoraggiano la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Magari nell’Europa settentrionale (Francia, Germania) questo effetto di disincentivo non è rilevante, ma nel nostro, dove sono presenti già vari tipi di ostacoli al lavoro femminile, non è il caso di aggiungerne un altro.