Caro Ministro,
voglio confidarLe una cosa: sono stanco.
Sono stanco di sperare nella buca della posta, in attesa di una convocazione che, già so, non arriverà mai prima della metà di ottobre (quest’anno men che mai). O almeno le mie personali statistiche, accumulate in un decennio di insegnamento precario, dicono questo. Dicono anche, quando la convocazione arriva, che non durerà molto, e chissà quando ne arriverà un’altra. E chissà quando arriveranno i soldi. Quando va bene, la media è due mesi dalla scadenza del contratto.
Sono stanco al sol pensiero di ricominciare un altro anno scolastico con questi presupposti. Il sol pensiero, alcuni giorni, mi toglie quel sorriso che, per natura e per una fortuna caratteriale, assaporo la mattina quando apro gli occhi. Il mio solito buonumore, da qualche anno, comincia a dissolversi con il dissolversi dell’estate, con l’incombere della riapertura delle scuole. Ma non perché non abbia voglia di lavorare, anzi, esattamente per il motivo opposto: perché avrei voglia di lavorare, di svolgere il lavoro che sento di saper fare (e di voler fare) tra tutti quelli che sono costretto a mettere insieme per guadagnarmi un’esistenza dignitosa.
Diciamo decente.
Sono stanco, quando finalmente una supplenza arriva, di firmare contratti di venti, massimo quaranta giorni, senza mai avere la possibilità di organizzare un programma didattico completo, sempre in bilico, aggrappato a un rinnovo di cui nulla si sa, se non all’ultimo momento.
Sono stanco di lasciare una classe alla quale mi affeziono, con la quale comincio a condividere una parte della mia vita che poi devo interrompere a bruciapelo, da un giorno all’altro.
Sono stanco di subire i conseguenti sbalzi di umore.
Sono stanco di inventarmi in continuazione altri lavori per sopravvivere.
Sono stanco, con tutto il rispetto, di ascoltare la sua voce, e di leggere le sue interviste. Mi sembra tutto così lontano. Così falso. Così illogico. Oddio, mettendomi nei Suoi panni mi rendo conto che una logica ce l’ha. Il succedersi degli eventi e le cifre che ne scaturiscono parlano chiaro. Al momento del Suo insediamento, raccontano alcune cronache, Le è stato chiesto di recuperare attraverso il Suo dicastero una parte dei soldi utili ad accontentare altri dicasteri ritenuti più importanti (mi chiedo: c’è qualcosa di più importante per un paese della pubblica istruzione?). E lei, diligentemente, ha eseguito il compito assegnatoLe. Il che, numericamente tradotto, significa otto miliardi di euro da rastrellare entro tre anni, recuperabili attraverso il taglio di oltre 130.000 posti di lavoro, aumentando il numero di studenti nelle classi, spazzando via dalle graduatorie una quantità impressionante di insegnanti, o aspiranti tali, abolendo di fatto la cosiddetta “terza fascia”.
Senza dimenticare di strizzare l’occhio alle scuole private, e alla richiesta di rendere centrale e obbligatoria l’ora di religione da parte di chi, in teoria, dovrebbe occuparsi di un altro Stato, non di quello italiano.
Sono stanco di vedere, Lei non ci crederà, i miei colleghi (o aspiranti tali) arrampicarsi sui cornicioni o girare davanti agli ingressi delle “loro” scuole in mutande, per manifestare tutta la loro disperazione. Non riesco più a vederli, neanche in televisione. E non riesco più a guardarli dritto negli occhi, quando mi capita di incontrarli.
Come avrà intuito, Ministro, sono piuttosto stanco. Così ho deciso di riposarmi un po’, ma allo stesso tempo di rimanere attivo (dovessi sentirmi dire anche da Lei che sono un “bamboccione”, o peggio, un “fannullone”).
Ecco perché ho deciso, ancora una volta, di partire.
Qualche tempo fa, in una delle tante pause tra una convocazione e l’altra, ho accettato la proposta di una rivista per un reportage nel sud di Dakar, in un villaggio dove alcuni italiani di buona volontà hanno costruito un centro di accoglienza per bambini, nel quale insegnano loro il francese, lingua nazionale, dandogli in questo modo la possibilità di un futuro. Alla fine della mia permanenza il direttore del centro mi disse: “Sto seguendo quello che accade nel nostro paese. Se non la fanno insegnare in Italia, qui di insegnanti ne abbiamo bisogno come il pane...”.
Ebbene, nei prossimi mesi insegnerò in Africa.
Mi creda, caro Ministro, non è una scelta così coraggiosa come potrebbe apparire. Ci si sente bene, aiutando persone che hanno bisogno di te, e che apprezzano immensamente quanto tu sei pronto a fare per loro. Ci si sente meglio. Ci si addormenta senza patemi; e la mattina, quando apri gli occhi, torna il sorriso. Torna quel buonumore di cui sopra. E poi ho pensato, con un pizzico di perfidia, che in un certo senso questa scelta avrebbe fatto piacere anche a Lei, Ministro, e al governo che Lei rappresenta. Due piccioni con una fava, almeno per qualche tempo: un disoccupato in meno, un precario di meno, che inoltre va pure a insegnare in Africa. Magari così restano nel loro paese, invece di arrivare nel nostro. La invito quindi a considerare questa mia trasferta africana non solo come un’importante e ulteriore esperienza didattica che, ne sono sicuro, migliorerà la qualità del mio insegnamento, ma anche come una forma di protesta nei Suoi confronti. Una protesta individuale, inevitabilmente poco efficace, originale ma poco pratica.
Il fatto è, come ho cercato di spiegare, che sono stanco. Mentalmente stanco. E non riesco a sostare con le tende in viale Trastevere, davanti al Suo dicastero, né a partecipare alle infinite manifestazioni che si moltiplicheranno in questi mesi. Da questo punto di vista ha vinto Lei, almeno contro di me.
Una collega mi ha rimproverato: “Così ci lasci da soli, e il Ministro non saprà mai della tua forma di protesta. Quello che stai facendo, per quanto mi riguarda, è del tutto inutile”. Le parole della collega mi hanno scosso, un po’ anche ferito. E forse sono state soprattutto quelle parole a convincermi che forse era arrivato il momento di scriverLe questa lettera. Perché ormai ho preso la mia decisione: e il mio bagaglio, leggero come la libertà, è
praticamente pronto.
Arrivederci Ministro, dunque. Arrivederci a quando il vento dell’oceano avrà d’incanto portato via la mia stanchezza. Arrivederci a presto. Molto presto.
Cordialmente
Emiliano Sbaraglia
Emiliano Sbaraglia, l’autore di questa lettera, ha pubblicato da poco un libro sulla sua esperienza di insegnamento precario.
La scuola siamo noi (Fanucci) non è un romanzo, né un reportage narrativo né un saggio; è un libro nuovo nel suo essere concepito e scritto, dove è possibile comprendere la grande potenzialità che i ragazzi rappresentano e dare loro la possibilità di vivere un futuro diverso. C’è una classe, la quinta di un liceo scientifico di provincia, che è indietro nel programma di latino e italiano, e c’è un professore, supplente e precario da dieci anni, che deve portarla alla maturità, cercando di recuperare il tempo perduto.