Siamo nel bel mezzo della crisi economico-sociale più grave dagli Anni ’30 e non sappiamo quando e come ne usciremo, ma il governo, sfruttando una stramberia tipica della Commissione europea (che avrebbe ben altro cui pensare) caratterizza il Dpef 2010-2013 con interventi previdenziali controproducenti che, peraltro, si muovono in linea con quanto previsto nel Libro Bianco sul futuro del modello sociale.
La stramberia sta nel fatto che per l’Ue le pensioni pubbliche, a differenza di quelle private, sono (chissà perché) di tipo professionale; infatti l’obbligo della parificazione di trattamento uomo-donna non viene posto per le pensioni erogate dall’Inps (qualificate come regime legale). Ma che la direttiva europea faccia solo da supporto alla politica governativa è confermato dall’altro provvedimento inserito nel Dpef che prevede un aumento automatico dell’età di pensionamento per tutti, uomini e donne, nel privato e nel pubblico.
Dalla crisi in corso dovrebbero essere derivate ben altre indicazioni di politica economica e sociale. Gli sconvolgimenti in atto nel sistema economico hanno riproposto l’incertezza come una caratteristica centrale dei mercati capitalistici; le teorie e la pratica neoliberiste avevano rimosso quest’aspetto contraddittorio delle relazioni economiche (i mercati tanto più si sviluppano, tanto più aumentano l’incertezza che, però, è un serio ostacolo al loro funzionamento) ben evidenziato da Keynes (e prima da Marx); ma ad un anno dall’esplosione della crisi, il bene da tutti ritenuto più prezioso è ridare fiducia e sicurezza ai consumatori, ai produttori e agli intermediari finanziari. Altra necessità per uscire dalla crisi è rilanciare in modo credibile la domanda, e non potendo più ricorrere a quella drogata dai prestiti privi di garanzie, occorre ritornare lungo i sentieri di una più equa distribuzione del reddito. Invece, coerentemente con quanto previsto nel Libro Bianco, si è già ripresa la strada del contenimento del sistema pensionistico pubblico che ammortizza gli effetti della crisi e, smentendo gli allarmismi falsi e strumentali, non grava affatto sul bilancio pubblico, ma anzi lo sostiene: il saldo tra i contributi dei lavoratori e delle imprese e le prestazioni pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali è infatti attivo per un ammontare pari a circa lo 0’8% del Pil.
L’obiettivo strategico della politica governativa è ridurre la copertura pensionistica del sistema pubblico (che già si prospetta del tutto inadeguata: un lavoratore in pensione a 62 anni con 35 anni di contribuzione avrà una pensione pari a circa il 50% dell’ultima retribuzione se lavoratore dipendente e pari a circa il 40% se parasubordinato), sostituendola (non integrandola) con le pensioni private. Questa scelta, che implica incentivi fiscali a carico del bilancio pubblico, avrebbe il “merito” di deresponsabilizzare l’operatore pubblico e di ridurre il peso contributivo delle imprese, ma trasferirebbe anche sulle pensioni la maggiore incertezza dei mercati (sperimentata drammaticamente dagli iscritti ai fondi privati di tutto il mondo).
Aumentare l’età di pensione delle donne risponde ad un criterio attuariale (visto che vivono anche più degli uomini), ma questa non è una novità; come pure non è nuova la circostanza (per eliminare la quale nulla si è fatto e si sta facendo) che proprio sulle donne ricadono incombenze derivanti da un sistema di welfare che non prevede servizi adeguati di assistenza all’infanzia e agli anziani. Anche la spinta ad aumentare per tutti l’età di pensionamento può trovare motivazioni nell’aumento della vita media (ma non nell’equilibrio attuariale visto che nel sistema contributivo l’adeguamento dei coefficienti di trasformazione già ne tiene conto); tuttavia non si può ignorare che stiamo viaggiando verso una disoccupazione al 10% e non sappiamo quando il sistema produttivo sarà in grado di assorbire i disoccupati. In questa situazione, costringere i lavoratori anziani a rimanere in attività implica ostacolare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e il rinnovamento del sistema produttivo. Tale rinnovamento, insieme al miglioramento della distribuzione del reddito e ad una più efficace spesa sociale, sarebbe determinante per riorganizzare il sistema produttivo e uscire dalla crisi che ha sanzionato il fallimento del modello neoliberista affermatosi negli ultimi tre decenni. Ma nonostante le critiche ai “mercatismi”, quel modello è duro ad essere abbandonato (anche in certi ambienti che si considerano di sinistra).