1. L’esito del voto: uno sguardo in casa nostra
Cerchiamo di tirare le somme dopo due domeniche elettorali che hanno suscitato poche passioni rimandando, per un’analisi più approfondita di questi temi, al contributo di Alfio Mastropaolo in questo numero.
Per quanto concerne i referendum, l’esito era scontato, considerato che persino i promotori non si sono prodigati a fare campagna elettorale. Da un lato il Pdl, pur desideroso di una legge elettorale che gli consegnasse il potere di governare da solo, ha avuto paura dei contraccolpi sulla maggioranza di governo minacciati dalla Lega, uscita rafforzata dalle europee. D’altra parte il Pd, che aveva appoggiato l’ipotesi di una “legge truffa” in nome del bipartitismo e della “vocazione maggioritaria”, si è man mano reso conto che non era quella la via per battere Berlusconi. Ora, a referendum fallito, si riaprirà forse una discussione su quale sia la legge elettorale più adatta all’Italia. La speranza, cui non fare però troppo affidamento, è che i partiti si rendano conto almeno dell’incompatibilità tra il maggioritario e la cultura politica italiana ed evitino di proseguire la campagna di denigrazione del sistema proporzionale. Purtroppo è facile prevedere che ancora una volta in parlamento sulle ragioni della democrazia prevarranno le convenienze di parte, quelle convenienze che portano il Pd ad appoggiare qualunque legge elettorale che possa annullare il peso dei voti della sinistra o di altri partiti “minori”.
Passiamo alle elezioni europee. In Italia hanno fatto tre vittime illustri: il Pd, che perde oltre 4 milioni di elettori rispetto alle politiche dell’anno scorso, il Pdl, che ne perde 3 e la sinistra che, divisa, non riesce ad eleggere neppure un europarlamentare.
Nonostante la notevole emorragia di voti, la destra rafforza la sua posizione relativa. Perde molto il Pdl; la Lega, viceversa, con i suoi circa centomila voti in più rispetto alle politiche, torna a superare la soglia del 10%, come già era accaduto nel 2001, e accresce il suo potere contrattuale all’interno della compagine governativa.
Nel centro-sinistra frana il Pd mentre il partito di Di Pietro guadagna quasi novecentomila voti rispetto alle politiche. Non è difficile individuare la causa della débacle del Partito Democratico nella mancanza di progettualità e di credibilità, nell’incapacità di fare opposizione, nell’assenza di coesione e di idee. Il Pd è sempre incerto e lontano non solo da un’ottica socialdemocratica, ma anche dal pragmatismo blandamente riformista di un Blair o di uno Schroeder. Nello schieramento di centro-sinistra guadagna invece consensi l’Italia dei Valori che riesce a intercettare esigenze di giustizia e di moralità che il Pd sembra avere messo da parte.
La sinistra è lacerata e divisa, anche se va riconosciuto che i suoi risultati sono un po’ migliori che alle scorse politiche. È stata penalizzata da una legge elettorale, varata a pochi mesi dal voto, che a livello europeo non ha alcuna giustificazione, ma è solo il frutto della precisa volontà di eliminare la sinistra italiana anche dal parlamento europeo, dove pure non ci si può appellare a principi di governabilità per schiacciare le minoranze. Eppure anche il Pd ha votato con il Pdl la soglia di sbarramento nella vana speranza di accaparrarsi qualche “voto utile” in funzione anti-berlusconiana. C’è da domandarsi quale concetto distorto di democrazia abbia non solo il centro-destra, di cui già si sa, ma anche questo centro-sinistra che continua ad approvare leggi elettorali ad hoc, giustificabili solo da qualche possibile vantaggio contingente in termini di poltrone. Resta così il fatto che tre partiti, i due della sinistra e i radicali, che complessivamente rappresentano quasi il 10% dell’elettorato non conquistano nemmeno un seggio. Ma certo la sinistra non può nascondersi dietro a una legge elettorale iniqua, in realtà manca di proposte costruttive. La neo-coalizione “Sinistra e libertà” non ha saputo darsi un’identità (o forse non ne ha avuto il tempo). Rifondazione e Comunisti italiani hanno trovato una nuova fratellanza arroccandosi su posizioni di protesta, ma scarse di contenuti organici. È una sinistra divisa e litigiosa, ma c’è da dubitare che, se anche fosse stata unita, la soglia di sbarramento sarebbe stata superata. Si sa, quando due forze non omogenee si coalizzano, i loro voti non si sommano se si tratta di una pura aggregazione di simboli.
La sinistra non è stata capace di catalizzare l’attenzione nemmeno sul grande tema della crisi. Lo slogan “noi non pagheremo la vostra crisi” ha un sapore fra il ridicolo e il grottesco. Stiamo pagando la crisi, la stiamo pagando cara e la pagano soprattutto le classi deboli, ma la sinistra non è in grado di indicare una via di uscita. Perché mai i deboli dovrebbero dare il voto a chi non sa offrire proposte per la sua soluzione?
A conti fatti, colpisce davvero che l’Italia, che vantava il più forte partito comunista occidentale fino alla caduta del Muro di Berlino non abbia più nemmeno un rappresentante nella sinistra del parlamento europeo. Certamente la sinistra non ha saputo raccogliere l’eredità del Pci: una parte minoritaria è rimasta arroccata su posizioni anacronistiche, un’altra si è spostata sempre più a destra per tentare di raccattare i voti centristi, perdendo l’attenzione per i ceti deboli. Ma soprattutto la sinistra ha perso il suo radicamento nel territorio, ha dilapidato quel grosso patrimonio del Pci che era la presenza capillare delle sezioni, sui posti di lavoro, nei quartieri. Si possono anche trovare delle giustificazioni: non c’è più la grande fabbrica come momento di aggregazione della classe operaia ed è venuta meno la coscienza dell’appartenenza di classe.
Orfani dell’Urss, i dirigenti del Pci hanno fatto i salti mortali per ridarsi una verginità, per scrollarsi di dosso quella imbarazzante etichetta di comunisti. Hanno perfino messo da parte la questione morale, su cui tanta enfasi aveva posto Enrico Berlinguer, che avrebbe dovuto essere il tratto distintivo di un partito di sinistra; anziché rielaborarla, facendo tesoro delle contraddizioni del presente (a partire dal caso Unipol) e del passato (la scarsa distinzione tra politica, amministrazione e cooperative nelle “regioni rosse”), si è preferito inneggiare al garantismo lasciando di fatto la questione morale a Di Pietro.
Eppure c’è un grande sindacato, la Cgil che, nonostante le sue difficoltà, è ancora forte e, fino ad ora, ha visto una emorragia di iscritti ben più contenuta che negli altri paesi. Ma i vari Pds, Ds e Pd hanno fatto di tutto per smarcarsi dal più grande sindacato italiano al fine di conquistare l’appoggio di Cisl e Uil, sindacati più moderati e inclini a compromessi anche contro gli interessi dei lavoratori, e per accaparrarsi qualche voto degli imprenditori. Oggi il Pd insegue con più determinazione il consenso della Marcegaglia e dei “salotti buoni” che non quello della massa crescente di disoccupati, di precari e di lavoratori che da anni vedono eroso il loro potere d’acquisto e faticano ormai ad arrivare alla fine del mese. E così ha indebolito se stesso e anche il più grande sindacato italiano che nel Pci trovava la sua sponda politica. Le sinergie che avevano permesso al Pci e alla Cgil di crescere insieme, di spalleggiarsi nelle grandi lotte democratiche e di rappresentare congiuntamente gli interessi dei lavoratori sono venute meno e la sinistra ha disperso un patrimonio immenso. Forse proprio di lì potrebbe ripartire una strategia di rilancio della sinistra.
C’è da stupirsi se anche le classi deboli votano per la Lega? La votano certamente tanti piccoli imprenditori e lavoratori autonomi attratti dalla prospettiva di una riduzione delle imposte, ma la votano anche tanti operai e perfino molti delegati Fiom. La Lega amplifica la paura, la paura degli stranieri, dei diversi, della criminalità e poi propone soluzioni, seppure sommarie: protegge rispetto ai flussi di stranieri che finiranno per far concorrenza ai lavoratori locali e contribuiranno a deprimere i salari, protegge con le sue proposte di federalismo e la promessa di lasciare più soldi al Nord, protegge con le ronde. Il Pd da un lato insegue la destra e rinuncia a una seria azione “pedagogica” per scacciare le paure irrazionali, dall’altro non è capace di offrire soluzioni alle paure più comuni (criminalità, disoccupazione, ecc.).
È vero, non ci sono più le spinte ideali di un tempo, domina l’individualismo, è venuta meno la solidarietà. Ma forse neppure un tempo c’erano grandi spinte ideali, ma esisteva la consapevolezza dell’interesse comune, dell’appartenenza di classe. È mai possibile che il Pd non apra una riflessione su questo? Che non sappia contrapporre alla visione localista e razzista della Lega l’ipotesi di un rafforzamento dello stato sociale, di un sistema fiscale più equo, della protezione del lavoro e del salario? Che non tenti nemmeno di recuperare quella presenza capillare che il Pci aveva sul territorio, nei quartieri popolari, fra i lavoratori? Col tentativo di superare la contrapposizione fra lavoratori e padroni il Pd sta perdendo i voti degli uni senza avere il consenso degli altri, si appiattisce in quella “moderna” concezione della società, in cui le classi spariscono, i cittadini sono un insieme indifferenziato, non più lavoratori o manager, caso mai sono unificati nella categoria di consumatori.
Ma mentre gli eredi del Pci sgomitavano per essere accolti nei “salotti buoni” dell’imprenditoria e della finanza, era la Lega a capire quali opportunità offrisse e quanti voti portasse la presenza e il radicamento sul territorio.
Dunque hanno raccolto consensi i partiti di protesta, magari con una vena populista (si veda il contributo di Pazè in questo numero). Il partito di Di Pietro da un lato e la Lega dall’altro hanno guadagnato voti. Sono i partiti dell’antipolitica, ma sono anche i partiti che hanno saputo intercettare le esigenze di una fascia non indifferente dell’elettorato.
Ma ha anche mantenuto la sua posizione l’Udc, soprattutto nel sud. Come la vecchia Dc raccoglie voti clientelari; il caso siciliano ne è un esempio. E in più si è data un’apparenza di rispettabilità e perbenismo, che le ha consentito di raccattare un po’ di consensi nell’elettorato cattolico moderato che giudica sconvenienti certi comportamenti del premier.
Il partito vincente è però quello dell’astensione che, elezione dopo elezione, raccoglie sempre più consensi. È l’astensionismo che avanza in un paese che tradizionalmente si mostrava affezionato almeno a questo aspetto formale della democrazia. L’affluenza alle urne è nettamente calata; l’astensione è aumentata di 15 punti percentuali rispetto alle politiche, di 6 punti se facciamo un raffronto con le precedenti europee.
Privato della possibilità di scelta dei candidati nelle elezioni politiche, sottomesso al ricatto del voto utile anche alle europee, di fronte a un’offerta politica a dir poco sconfortante un’ampia fetta dell’elettorato ha scelto l’astensione, il disinteresse per il voto. In un paese tradizionalmente affezionato al rito del voto e con cittadini fortemente identificati in una parte politica, un interrogativo si pone: l’astensionismo è un modo consapevole di rifiuto di questa politica, una condanna da parte dei cittadini per il modo di fare politica? Oppure è una strada verso il qualunquismo, che comporta la delegittimazione delle politiche pubbliche, è indicatore di una mancanza di sensibilità democratica che finisce col legittimare l’autoritarismo con conseguenze devastanti sulla nostra democrazia ormai in frantumi? La partecipazione democratica non si esaurisce con il voto e certamente coesistono entrambe le componenti. Ma il dubbio di un crescente disinteresse per la cosa pubblica, per la democrazia, per lo stato delle istituzioni è quanto mai legittimo e sicuramente inquietante.
2. L’Europa è lontana
La distribuzione dei voti fra gli schieramenti politici, come prevedibile, non è poi molto lontana da quella del 2008. Gli elettori non sono molto mobili, gli spostamenti elettorali sono sempre abbastanza marginali, l’insoddisfazione per la politica della propria parte si traduce più frequentemente nell’astensione che nel cambio di schieramento.
Ma fa riflettere la campagna elettorale che l’ha preceduto, una campagna tutta tesa a trattare temi italiani, in cui l’Europa ha fatto vagamente da sfondo, è stata presente solo in qualche slogan. Nella migliore delle ipotesi il dibattito si è concentrato su temi interni, terremotati dell’Abruzzo, immondizie a Napoli, sgravi fiscali, quando non si è scaduti nel pettegolezzo su veline, divorzi e quant’altro. Il Pd, istigato dal quotidiano “la Repubblica”, ha preferito spostare l’attenzione sulle questioni private di Berlusconi (che forse non turbano granché le coscienze degli italiani, ma è ipotizzabile che un po’ di consensi glieli abbia fatti perdere) piuttosto che sui grandi problemi economici e sociali dall’Italia: povertà, disoccupazione, incapacità di affrontare la crisi, ecc..
Ma una cosa è certa, l’Europa è stata la grande assente dal dibattito elettorale.
Le elezioni europee in Italia, ma anche negli altri paesi, sono state viste per lo più come un test per i partiti nazionali. Eppure mai come oggi l’Europa potrebbe e dovrebbe avere un ruolo fondamentale nella gestione della crisi. Ma su questo torneremo più avanti.
Perché, c’è da chiedersi, tanta distanza dai grandi temi della politica europea?
Che l’Europa sia lontana, o almeno così appaia ai cittadini è scontato. Dopo una fase di entusiasmo europeista, l’Europa è sempre più percepita come vincolo, come un’istituzione in mano a interessi nazionali e sovranazionali, a tecnocrazie e burocrazie che dilapidano risorse che dovrebbero essere destinate a politiche di interesse collettivo. Spesso è sentita come responsabile dell’aumento dei prezzi e della perdita di competitività. Nemmeno si conosce la composizione e il ruolo del parlamento europeo, la posizione dei partiti. Addirittura la collocazione dei candidati del Pd nei partiti presenti al parlamento europeo non è stata indicata prima delle elezioni.
Il parlamento europeo in realtà è un’istituzione in cui si giocano anche partite importanti, che hanno un impatto diretto sulla vita dei cittadini, ma i suoi poteri sono comunque limitati rispetto ad altri organismi comunitari, per cui l’Europa viene percepita – non a torto – come poco democratica.
Non si può dire che negli altri paesi europei la percezione delle cose sia diversa e anche fuori dall’Italia la campagna elettorale si è svolta in un’ottica localistica, ovunque ci si è mossi per lo più in una prospettiva di estraneità rispetto alle istituzioni europee. E anche nel resto d’Europa l’astensionismo è cresciuto, a dimostrazione che l’Europa è percepita lontana per i soci fondatori come per i nuovi entranti. Non solo in casa nostra si assiste alla crisi degli storici partiti di centro-sinistra e si affermano partiti populisti, euroscettici, fascistoidi, xenofobi, ma anche in Olanda, Austria, Regno Unito, Finlandia, Ungheria, ecc.
Ma, a differenza dell’Italia, c’è anche un’affermazione di rilievo dei partiti verdi, senz’altro interessante e sintomo di una presa di coscienza del disastro ecologico che incombe, ma anche dell’incapacità degli altri partiti di farsi carico in modo adeguato del problema ambientale.
Vale poi la pena ricordare il seggio conquistato in Svezia dal partito dei pirati. Interessante senza dubbio, segno della possibilità di convogliare il voto di protesta in modo costruttivo attorno a un progetto democratico seppure circoscritto. Sarebbe sbagliato considerarlo solo come una nota di colore. È un fenomeno importante, con tutta probabilità è destinato a crescere. Si presenta come una richiesta di democrazia e libertà nello scambio delle informazioni; è una difesa dello spazio di internet e dei blog, minacciati dagli interessi delle multinazionali.
Ad eccezione dei verdi che guadagnano 11 seggi, tutta la sinistra arretra, la sinistra radicale accusa un duro colpo per il venir meno della rappresentanza italiana che nel 2004 aveva ben 7 seggi.
Il risultato complessivo del voto europeo è stato lo spostamento a destra. Mai come oggi il Pse è debole, avendo perso un quinto dei seggi. Non dappertutto è andato male, qualche eccezione c’è; in Svezia e in Grecia i socialdemocratici hanno guadagnato consensi. Ma in Francia, Germania e Gran Bretagna è stata una débacle. Gli elettori hanno chiaramente voluto punire i partiti socialdemocratici, incapaci di proposte persuasive. Gli equilibri nel parlamento europeo sono cambiati. Tiene il Ppe, che perde 4 seggi e meno di un punto percentuale a causa della defezione dei tories inglesi che entrano nel gruppo “altri”; crescono i partiti nazionalisti e xenofobi. Il parlamento europeo appare dominato ora da un centro-destra che si è affrettato ad abbandonare la facciata dell’ideologia liberista. Di facciata si trattava, intendiamoci, perché i partiti di destra e centrodestra al potere non sono mai stati davvero liberisti, ma hanno ampiamente regolamentato l’economia a uso e consumo dei potentati economici. La destra, di fronte alla crisi, ha cambiato rapidamente camicia e da formalmente liberista si è presentata come interventista, spiazzando un’incerta socialdemocrazia.
È strano, di fronte alla crisi ci si sarebbe potuto aspettare un rafforzamento dei partiti progressisti più inclini alla redistribuzione, alla protezione delle classi deboli, alla regolazione dei mercati. Così è successo negli Usa. Non è dato sapere se Obama avrebbe vinto le elezioni in ogni caso, ma certo è che la crisi ha contribuito alla sua affermazione ed era evidente nella sua campagna elettorale che la sua presidenza avrebbe comportato un cambiamento nella direzione di una maggiore presenza pubblica nell’economia e nella redistribuzione a favore delle classi deboli. Insomma, nel cuore della crisi l’elettorato ha scelto Obama come durante la Grande depressione degli anni Trenta scelse Roosvelt. Invece in Europa prevale la destra conservatrice e si affermano i partiti populisti e nazionalisti. Forse è azzardato un parallelo con l’Europa degli anni Trenta, almeno così ci auguriamo. Speriamo che un po’ di anticorpi rispetto alle derive populiste e fasciste siano rimasti; certamente ci sono in Germania che ha fatto seriamente i conti col proprio passato; ci auguriamo che questa possa essere una garanzia. Certo è che movimenti nazionalisti e fascistoidi si stanno affermando ora come negli anni Trenta. E si intravede anche la presenza di una destra interventista nella cosa pubblica, una sorta di keynesismo di destra, come qualcuno impropriamente l’ha chiamato, comunque attenta alle esigenze dei ceti medio-alti più che alle classi deboli, pronta ad abbassare le imposte per favorire gli imprenditori, ma anche poco rigorosa sui conti pubblici, tendente non di rado anche a spinte nazionalistiche talora con venature di razzismo. La destra italiana ne è un esempio, ma si può cogliere un orientamento simile anche nella Francia di Sarkozy.
In conclusione è stata premiata l’Europa delle idee forti, di chi propone una qualche forma di intervento, anche se iniquo o parziale e sono state puniti i partiti incerti e poveri di proposte.
3. Un’Europa debole e incerta
Oggi, più che in passato, l’Europa si trova fronte due sfide chiave: la crisi economica e l’emergenza ambientale. E di fronte a queste sfide l’Europa non è all’altezza, non riesce a trovare strategie comuni o, almeno, coordinate. Eppure in passato il bilancio della costruzione europea è stato positivo: ha garantito la pace e promosso l’integrazione dei paesi dopo una guerra fratricida, ha favorito i processi di democratizzazione delle nazioni del sud uscite dalle dittature. Ma il meccanismo virtuoso si è inceppato. Qualcosa nella costruzione europea è cambiato rispetto agli obiettivi di partenza. L’idea del mercato comune e dell’integrazione economica doveva portare, secondo i padri fondatori, a una comunione di interessi che avrebbe promosso necessariamente l’unione politica. Anche la creazione della moneta unica e la rinuncia alla sovranità sulla politica monetaria avrebbero potuto costituire una spinta in questa direzione. Le cose sono andate diversamente; quella che poteva essere le molla per la creazione di un’Europa politica e, in ultima istanza, uno strumento di democratizzazione e di solidarietà sociale si è trasformata in una fonte di concorrenza al ribasso sul piano fiscale, sociale e salariale. Lo spazio europeo si fonda più sulla competizione che sulla solidarietà degli stati membri, prevalgono istanze particolariste.
Ma cosa ha portato a una rottura nella specificità della costruzione europea e alla fine dell’idea dell’unione politica e dei principi di solidarietà che avevano ispirato i padri fondatori?
Vari fattori si sono intrecciati.
a) Il dominio dell’ideologia liberista si è gradualmente esteso alle istituzioni europee; anche i partiti di ispirazione socialdemocratica hanno gradualmente abbandonato le loro radici. Basti pensare che la riforma Hartz in Germania, molto simile alla nostra legge Biagi, è stata varata dall’Spd. Non pare che ci sia ormai una contrapposizione così netta fra partiti centristi che si muovono per smantellare lo stato sociale e partiti socialdemocratici che lo difendono e lo rafforzano. Le posizioni sono sfumate.
b) Conta certamente la paura ispirata dalla globalizzazione. Il timore di perdere fattori identitari è importante, ma contano anche considerazioni economiche, come le delocalizzazioni che sottraggono posti di lavoro, o almeno così vengono percepite. Poi c’è la paura dell’immigrazione, vista come minaccia alla sicurezza personale o come causa della disoccupazione e dei bassi salari. Questo insieme di fattori ha comportato la contrapposizione allo spirito europeista di un comportamento nazionalistico/regionalistico, accentuato dalla crescita dell’individualismo.
c) Un altro elemento è stato l’inclusione dei paesi dell’est. L’allargamento dell’UE è stato effettuato senza un preventivo approfondimento. Forse l’allargamento era inevitabile nel clima creato dalla caduta del muro di Berlino, ma certamente le istituzioni europee concepite per un piccolo nucleo non erano pronte a funzionare per 27 paesi. Ne è seguita una paralisi: l’allargamento ha provocato l’impasse dell’Europa sociale, ha comportato una convergenza verso il basso causata da una corsa alla riduzione delle imposte, cui è seguito necessariamente un ridimensionamento del welfare.
d) La creazione dell’Unione monetaria non è riuscita a trainare le istituzioni politiche. Era una scommessa: l’integrazione monetaria e finanziaria doveva diventare l’elemento trainante dell’integrazione politico-istituzionale attraverso il coordinamento delle politiche fiscali e sociali. Si trattava di invertire la consueta sequenza dei processi di integrazione. Ma il trattato di Maastricht ha privilegiato la stabilità monetaria: le proposte di Delors di inserire nei parametri indicatori della disoccupazione non furono accettate, come fu respinta nel 1997 l’idea, sempre di Delors, di un patto di coordinamento delle politiche macroeconomiche accanto al patto di stabilità e crescita. Le conseguenze sono state la mancanza di cooperazione e un coordinamento inadeguato, con risvolti negativi sul clima di fiducia nelle istituzioni europee.
e) Infine merita un breve cenno la strategia di Lisbona, lanciata enfaticamente nel 2000 come impegno per le questioni occupazionali e sociali, che avrebbe dovuto controbilanciare il ruolo egemonico delle politiche monetarie e fiscali. In realtà è diventata un contenitore vuoto, un arnese fatto di indicazioni, orientamenti, pilastri, ecc., che poggia su basi teoriche fragilissime, subordinato alle politiche monetarie e fiscali. La strategia di Lisbona non è riuscita a raggiungere neppure uno degli obbiettivi prefissati e questo momento di crisi ne evidenzia il fallimento.
4. L’Europa e la crisi
Siamo nel cuore di una recessione profonda, la cui durata è imprevedibile e di cui ancora non abbiamo visto tutti gli effetti devastanti. Non intendiamo in questa sede approfondire cause e conseguenze; ce ne parla in questo numero l’articolo di Francesco Scacciati e contiamo di tornare a breve su questi temi. Certo è che questa grande crisi, esplosa con lo scoppio di una bolla finanziaria, è il prodotto di un complesso intreccio di problemi finanziari, monetari e reali, di squilibri internazionali, di disuguaglianze crescenti nella distribuzione dei redditi all’interno dei paesi e su tutto ciò incombe il problema ambientale. L’azione dei singoli Stati può sortire solo esiti limitati; l’azione di coordinamento in questo contesto è essenziale. Solo così si può evitare che gli Stati europei scarichino l’uno sull’altro l’onere dell’aggiustamento macroeconomico. E invece per il momento ognuno va avanti per conto proprio.
La crisi potrebbe costituire una grande occasione di rilancio per la coesione dell’Europa. Stiamo attraversando una fase di cambiamento del paradigma economico e culturale di riferimento. Dopo una fase di dominio dell’ideologia del laissez faire, di enfasi parossistica sull’individualismo a tutti i livelli, la crisi ha messo a nudo i limiti del pensiero neoliberista che è servito a legittimare le politiche economiche condotte a partire dagli anni ottanta. La crisi impone di ripensare in modo profondo il modello di sviluppo, il ruolo del settore pubblico e delle politiche economiche. Quale migliore opportunità per un rilancio dell’Europa, delle sue istituzioni, della cooperazione fra paesi?
Invece nessun coordinamento è stato realizzato nelle politiche macroeconomiche. Ogni paese può rimanere in attesa degli stimoli alla domanda proveniente dagli altri; si incentiva così un comportamento da free rider con effetti perversi su tutti. Non sono sufficienti né i salvataggi di banche e imprese, né una politica sociale. Si deve ripensare a un modello di sviluppo più equo, alla sua sostenibilità ambientale, alla salvaguardia dei beni pubblici. Sarebbe urgente una strategia europea forte. Ma la risposta europea alla crisi è stata formale, non si è voluto fare un piano di rilancio continentale.
Una grande opportunità sarebbe quella dell’emissione di bond europei finalizzati alle politiche di intervento che i singoli paesi non sono in grado di sostenere o non vogliono attuare perché, in mancanza di coordinamento, i benefici ricadrebbero più sui partner commerciali che non all’interno. Gli eurobonds potrebbero finanziare il grande programma di infrastrutture europee, materiali e immateriali, già a suo tempo proposto da Delors, potrebbero essere utilizzati per lanciare un piano di sviluppo compatibile con gli equilibri ambientali, una riconversione ecologica dell’economia. E ancora gli eurobonds potrebbero servire per aiutare i paesi più colpiti dalla crisi, perché, si badi bene, la crisi degli altri riguarda anche noi. L’emissione di eurobonds per finanziare infrastrutture e progetti per uno sviluppo sostenibile potrebbe essere un fattore di coesione, la concretizzazione di uno spazio comune europeo e dunque un momento forte di democratizzazione dell’Europa e delle sue istituzioni.
E invece la sola decisione di rilievo che è stata presa è stata una deroga al Patto di Stabilità, deroga fin troppo ovvia se si considera che, al netto di salvataggi e interventi attivi, in presenza di una caduta del PIL i soli stabilizzatori automatici (cioè l’aumento della spesa sociale per sussidi e assistenza e la diminuzione delle entrate fiscali) avrebbero fatto saltare i parametri.
Ben poco si fa per superare nazionalismi e particolarismi, per dare all’Europa un ruolo positivo percepibile come uno spazio di democrazia, libertà e coesione sociale, e non come elemento costrittivo e limitazione di sovranità.
Si aggiunga poi a questo stato di cose la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia sociale, che permette di assumere lavoratori secondo la normativa del paese d’origine, incentivando così quel dumping sociale già respinto dal parlamento europeo grazie al rigetto della direttiva Bolkestein.
Se è vero dunque che la democrazia si legittima anche per la sua capacità di favorire la coesione sociale e riequilibrare i fallimenti del mercato, possiamo affermare che oggi è evidente un fallimento dell’Europa come attore democratico. L’auspicio è che questa crisi possa favorire un ripensamento e che l’ideale europeista ritrovi lo slancio che aveva un tempo. Ma forse pecchiamo di ottimismo.
* Lia Fubini insegna Politica Economica all’Università di Torino