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Le straordinarie analisi di gestione del rischio originate dagli scritti di Henry Markowitz, dell'Università di Chicago, negli anni 50, hanno prodotto idee e intuizioni all'origine di numerosi premi Nobel per l'economia. Sono state abbracciate non soltanto da larga parte del mondo accademico, ma anche dalla gran parte dei professionisti della finanza e degli organismi di regolamentazione di tutto il mondo.

Nell'agosto 2007, però, la struttura della gestione del rischio ha scricchiolato. Tutta quella sofisticata scienza matematica e informatica sostanzialmente poggiava su una premessa, e cioè che l'interesse egoistico illuminato di proprietari e direttori degli istituti di credito li avrebbe indotti a mantenere scorte cuscinetto sufficienti a cautelarsi dal rischio d'insolvenza, monitorando attivamente le posizioni di capitale e di rischio delle loro società. Per generazioni questa premessa è apparsa incontestabile, ma nell'estate del 2007 è venuta meno.

Anche con il venir meno dell'autoregolamentazione il sistema finanziario sarebbe riuscito a tenere se il secondo argine contro le crisi, il nostro sistema di regolamentazione, avesse funzionato efficacemente. Ma sotto la pressione della crisi ha ceduto anch'esso. La lezione importante è che gli organismi di regolamentazione non sono in grado di prevedere, del tutto o con precisione, se, ad esempio, i mutui subprime diventeranno tossici, o se una certa tranche di Cdo (collateralised debt obligations) andrà in default, o anche se il sistema finanziario si pianterà. Una fetta importante di queste previsioni difficili invariabilmente si rivelerà sbagliata.
Quello che possono fare la supervisione e i controlli, secondo la mia esperienza, è fissare e far rispettare requisiti patrimoniali e di garanzie, oltre a una serie di altre regole che sono preventive e non legate unicamente a previsioni di un futuro incerto. La regolamentazione dovrebbe accrescere l'efficacia dei mercati e della concorrenza, non ostacolarla. La concorrenza, e non il protezionismo, è la base del grande successo che ha conosciuto il capitalismo nell'arco di molte generazioni.

Le nuove sfide per la regolamentazione nascono dal fatto, recentemente dimostrato, che alcuni istituti di credito sono diventati too big to fail, troppo grandi per essere lasciati fallire, perché il loro fallimento metterebbe a rischio la tenuta del sistema. Tale status garantisce loro uno speciale vantaggio competitivo, dagli effetti fortemente distorsivi per il mercato, riguardo al valore delle azioni e obbligazioni da loro emesse. La soluzione sono requisiti patrimoniali graduati per scoraggiarli dall'ingrandirsi troppo e compensare il loro vantaggio competitivo. In ogni caso, non c'è necessità di affrettarci a introdurre riforme. I mercati privati per il momento stanno imponendo restrizioni molto più efficaci di quelle che riuscirebbe a imporre un qualunque pacchetto di proposte normative.

Il capitalismo liberista è emerso dalla battaglia delle idee come il mezzo più efficace per ottimizzare il benessere materiale, ma il suo percorso è periodicamente tormentato da bolle speculative e rari ma devastanti tracolli economici che producono miseria diffusa. Le condizioni per l'insorgere delle bolle apparentemente sono: periodi prolungati di prosperità, un'inflazione sotto controllo e tassi d'interesse a lungo termine bassi. Le bolle che nascono dall'euforia non si sviluppano in economie inefficienti o tormentate dall'inflazione. Non ricordo di nessuna bolla speculativa nell'ex Unione Sovietica.

La storia dimostra anche che la sottovalutazione del rischio - il tratto distintivo delle bolle - può persistere per anni. Nel 1996 temevo l'"esuberanza irrazionale", ma la bolla di internet continuò a gonfiarsi per altri quattro anni. E in una riunione del Comitato per le operazioni di mercato aperto, nel 2002, sostenevo che «è difficile non giungere alla conclusione che lo straordinario boom dell'immobiliare a cui stiamo assistendo finanziato da un fortissimo incremento dei mutui, non potrà andare avanti a tempo indefinito». La bolla immobiliare ha continuato a gonfiarsi fino al 2006.
Non è quasi mai difficile individuare una situazione di sottovalutazione del rischio. I credit spreads sono indicatori affidabili. Ma prevedere l'insorgere di una crisi è qualcosa che appare al di là delle nostre capacità di previsione. Le crisi finanziarie sono definite da una discontinuità marcata nei prezzi delle attività. Ma perché ciò si verifichi occorre che la stragrande maggioranza degli operatori di mercato non abbia avuto sentore dell'avvicinarsi della crisi. Perché in caso contrario sarebbe stata scongiurata dall'arbitraggio finanziario.

All'inizio di questo decennio, ad esempio, quasi tutti si aspettavano che la prossima crisi sarebbe stata innescata dal grande e persistente deficit delle partite correnti Usa, che avrebbe accelerato il collasso del dollaro. Invece è stata l'eccessiva cartolarizzazione dei mutui subprime americani, inaspettatamente, a dare il via all'attuale crisi di solvibilità.

Quando da un contesto economico eccezionalmente positivo emerge una bolla, una propensione innata della natura umana incoraggia una febbre speculativa che si autoalimenta, cercando nuove aree inesplorate e ad alta leva finanziaria. I titoli garantiti da ipoteca sono stati spezzettati in obbligazioni Cdo, e poi in obbligazioni Cdo al quadrato. La febbre speculativa crea nuove autostrade per l'eccesso, fino a quando il castello di carte crolla. Che cos'è che alla fine ne provoca la caduta? La realtà.

Un evento sconvolge i mercati quando contraddice il senso comune sul presunto funzionamento del mondo della finanza. L'incertezza conduce a un drammatico disimpegno da parte della comunità finanziaria, che quasi immancabilmente comporta vendite e, di conseguenza, prezzi più bassi per prodotti e attività. Possiamo spiegare con modelli economici la fase dell'euforia e la fase della paura del ciclo del business: hanno parametri piuttosto diversi. Ma non siamo mai riusciti a trovare modelli economici efficaci per illustrare la transizione dall'euforia alla paura.
Non dico che le Banche centrali non siano in grado di disinnescare una bolla. Ma la mia esperienza è che, a meno che la politica monetaria non schiacci l'attività economica e, per esempio, assorba il grosso dell'incremento dei profitti o delle rendite, le misure per far sgonfiare le bolle sul nascere sono destinate a fallire. Non so di nessun caso in cui una politica monetaria graduale sia riuscita a disinnescare una bolla.

Rimettere in piedi il sistema bancario americano è un requisito chiave per un riequilibrio globale. L'acquisto da parte del Tesoro Usa di 250 miliardi di dollari (185 miliardi di euro) di azioni privilegiate di banche commerciali americane nell'ambito del programma di salvataggio delle attività in crisi (conseguente alla dichiarazione d'insolvenza della Lehman Brothers) è stato oggettivamente efficace nel ridurre il rischio d'insolvenza delle banche Usa. Ma, a partire da metà gennaio, senza ulteriori investimenti da parte del Tesoro, i progressi si sono bloccati. Per ripristinare il credito da parte delle banche servirà un'ingentissima infusione di capitali da fonti pubbliche o private. L'analisi degli stati patrimoniali consolidati delle banche statunitensi suggerisce una perdita potenziale di almeno 1.000 miliardi di dollari (735 miliardi di euro) rispetto al valore da libro storico (12mila miliardi di dollari, 8.800 miliardi di euro) degli asset delle banche commerciali Usa.

Alla fine del 2008 erano stati cancellati circa 500 miliardi di dollari (365 miliardi di euro), con altrettanti ancora da riconoscere. Ma coprire questi ultimi 500 miliardi non basterà a incoraggiare la normale attività di prestito se chi investe nelle passività delle banche esigerà, come sospetto, altri 3-4 punti percentuali d'"imbottitura" nel rapporto tra capitale proprio e attività. A quanto sembra, quindi, servono 850 miliardi di dollari (625 miliardi di euro) e più. Una parte viene fornita dall'incremento del cash flow delle banche. Un'inversione di rotta dei prezzi delle azioni a livello mondiale potrebbe garantire una fetta ancora maggiore. Ma rimane comunque un grosso buco da riempire, probabilmente con finanziamenti del Tesoro. È troppo presto per valutare le più recenti iniziative (Public-Private Investment Program) del Tesoro Usa, ma la speranza è che riescano a rimuovere gran parte del pesante fardello d'attività non liquide in mano alle banche.

L'autore è l'ex presidente della Federal Reserve: il testo è stato pubblicato dal Financial Times nell'ambito di un dibattito sul futuro del capitalismo
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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