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La Divina Ecommedia: tutti gli economisti all'inferno

08/05/2009

Con il permesso dell’autore, trasmetto in anteprima ai lettori del blog e all’intera comunità scientifica il contenuto di uno articolo in corso di pubblicazione del collega Maurizio Bettini, professore di filologia greca e latina presso il nostro Ateneo. Vi si commenta una sensazionale scoperta i cui risvolti trascendono il puro interesse letterario.

«Recentemente il professor Sigismondo Pareto, noto italianista, ha compiuto la scoperta forse più rilevante di tutta la filologia dantesca degli ultimi cento anni. In un fascicolo miscellaneo conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, egli ha infatti rinvenuto l’abbozzo di un canto della Divina Commedia che l’autore, Dante Alighieri, non ha mai portato a termine, e dunque non è mai stato incluso nel divino poema. Si tratta di un testo prosastico, redatto in latino, che Pareto, a dispetto della cattiva qualità del manoscritto - due chartae severamente danneggiate dal tempo e dall’alluvione del 1966 - ha decifrato con un amore pari solo alla sua maestria di filologo. In alcuni punti Dante aveva altresì inserito frammenti di endecasillabo e, in qualche caso, un’intera terzina. Si tratta evidentemente di versi che il suo potente estro poetico gli andava suggerendo già prima che egli si mettesse a versificare compiutamente l’abbozzo che stava tracciando.

 

La cantica del poema a cui il nostro testo deve essere riferito, è sicuramente costituita dall’Inferno. Pareto propone poi, con ragionevole certezza, che il canto mai nato dovesse collocarsi nei pressi dell’attuale canto undecimo, il quale costituisce una sorta di mappatura generale dell’Inferno. Non è questa la sede per discutere degli innumerevoli problemi filologici sollevati dall’abbozzo. Qual è piuttosto l’argomento di questo canto così prodigiosamente riemerso dall’oblio?

 

Lo stupore di Pareto, al momento della decifrazione, deve essere stato grande. Lo si evince dalla nota che egli ha posto in calce alla sua trascrizione: “Tanta videtur esse hodierna huis cantici vis, quae vix credi possit”. Insomma, l’attualità e la modernità del disegno dantesco, quale esso traspare dall’abbozzo rinvenuto da Pareto, è di tale dirompente vitalità, da lasciare incredulo non solo lo scopritore, ma anche il comune lettore.

 

Nel testo si narra infatti di come Dante si fosse trovato di fronte ad un gruppo di uomini i quali marciavano senza sosta con le mani incrociate dietro la schiena e gli occhi piantati sulla nuca. Proprio così, sulla nuca, a manifestare evidentemente la loro incapacità di guardare avanti e di prevedere il futuro. Ad essi non pareva che la giustizia divina avesse assegnato ancora un girone particolare, mentre l’impazienza con cui si muovevano tradiva in loro l’attesa per un giudizio che tardava a giungere. “Chi son costor?” chiede Dante incuriosito. E il buon Virgilio:

 

Vedi costì la stirpe sanza piéta
che strologando sugli beni altrui
scienza vuol far del correr di moneta

 

Di fronte alla rivelazione del fatto che egli si trova nei pressi di un gruppo di economisti, Dante si attende che il suo maestro gli lanci un poderoso “Non ti curar di lor, ma guarda e passa!”, e si accinge anzi a voltarsi per andarsene. Ma Virgilio, inaspettatamente, lo ferma.

 

Ciò che segue nell’abbozzo è talmente danneggiato dagli agenti naturali, che neppure la perizia infinita del professor Pareto è riuscito a darcene un’idea compiuta. A quel che si intuisce, però, Virgilio fa inaspettatamente appello alle vicende biografiche della sua famiglia, ricordando a Dante come egli fosse figlio di un modesto operaio mantovano il quale, commerciando abilmente la legna dei boschi, era riuscito a farsi una discreta fortuna. Cosa che aveva permesso al giovane Virgilio di ricevere un’adeguata educazione letteraria e, in definitiva, di scrivere l’Eneide. Segue una lacuna di due righe, che neppure Pareto è riuscito a colmare. Dal seguito si intuisce però che Dante, sia pure rispettosamente, fa notare al suo maestro che, se chi commercia non è persona vile, e dunque egli ha il massimo rispetto per il padre di Virgilio, non altrettanto rispetto merita colui che

 

scienza vuol far del correr di moneta

 

Dopo di che Dante fa nuovamente il gesto di allontanarsi. Ma Virgilio lo ferma ancora una volta, facendo appello, in questo caso, ad un esempio di fronte al quale Dante non potrà formulare alcuna obizione. Quello di Seneca il filosofo. Ecco le parole di Virgilio:

 

Seneca tuo, d’ogni virtù faro,
che di moral maestro il mondo acclama,
della moneta scienza fece al paro

 

A queste parole lo stupore di Dante è così grande, che egli resta impietrito per qualche secondo, come se fosse stato colpito dal fulmine. Dunque Seneca, l’autore delle Lettere a Lucilio, il filosofo stoico, l’uomo dalla morale non solo adamantina, ma eroica fino alla morte, aveva fatto scienza del correr di moneta? Come, perché, in qual modo?

 

Virgilio racconta dunque di come Seneca non solo aveva accumulato molti milioni di sesterzi sfruttando i suoi rapporti con Nerone ma, soprattutto, di come aveva prestato questo denaro in Britannia ad un altissimo tasso di interesse, avendo abilmente previsto la crisi economica che si sarebbe scatenata in quelle terre. Di fronte all’esempio di Seneca Dante si arresta, e sente improvvisamente sorgere in sé il desiderio di rivolgere alcune domande a quei dannati. Dunque si avvicina a loro e, vincendo la naturale ripugnanza per lo stravolgimento di quegli occhi che continuano a fissarlo dalle nuche, apostrofa gli economisti che gli si avvicinano. Da questo momento in poi il manoscritto è, in gran parte, illeggibile, ma dalla ricostruzione di Pareto traspare chiaramente la preoccupazione del Poeta per la crisi economica che sta attraversando il mondo dei viventi.»

 

 

 

La notizia segnalataci dal collega Bettini, che ringrazio sentitamente per averci concesso questa anticipazione, lascia sgomenti. Se, secondo Dante Alighieri, tutti i grandi economisti sono all’inferno, non si vede come quelli più mediocri potrebbero evitarne le pene. Il pre-giudizio contro gli economisti non apparterrebbe solo agli esseri umani. Sarebbe anche un Pre-Giudizio Divino. Dio avrebbe deciso, indipendentemente dai nostri altri peccati, di farci patire, per sempre, le fiamme dell’inferno!

 

Ho già avuto modo di constatare l’effetto della notizia sui colleghi economisti cui ho potuto riferire in anteprima il contenuto della scoperta. Dopo un momento di costernazione, la gran parte di loro ha confermato un’incrollabile fede nei principi della professione, secondo i quali, dopo la decisione divina, il costo opportunità di peccati addizionali sarebbe nullo. Qualcuno, invece, si è sentito sollevato dal fatto che il rinvenimento del manoscritto dantesco darebbe agli economisti defunti la possibilità di esprimere le loro opinioni anche su quanto è successo dopo la loro scomparsa. In una situazione così difficile il loro aiuto potrebbe essere davvero prezioso!

 

In prossimi post della Divina Ecommedia i lettori della goodwinbox potranno ascoltare, filtrate dalle parole del Sommo Poeta, le opinioni dei grandi economisti che hanno abbandonato il mondo dei viventi.

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