Sono passati due mesi dalla seconda Conferenza Nazionale della Famiglia. L’evento, ideato come forum per la discussione di interventi a sostegno della famiglia, ha attratto l’attenzione dei media soprattutto a causa della defezione forzata del presidente del consiglio in seguito al Rubygate, che ha relegato in secondo piano il programma dei lavori. Eppure i temi affrontati dalla conferenza rivestono un’importanza fondamentale per lo sviluppo economico e sociale del paese, soprattutto in tempi di declino della fecondità e costante invecchiamento della popolazione. Nel complesso è emersa la necessità di aiutare le famiglie mediante misure per il sostegno del reddito (si veda in proposito anche l’articolo di Paladini su questo sito), per favorire la conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare, infine per la promozione del ruolo della famiglia nel sistema educativo e nella formazione di reti di mutua assistenza. Si tratta di interventi necessari e auspicabili in un paese decisamente carente nelle politiche di sostegno alla maternità e alle famiglie: l’Italia spende solo il 4,7% del Pil nelle politiche di sostegno alla famiglia (rispetto ad una media dell’UE27 dell’8,26%), collocandosi in penultima posizione nella classifica dei paesi europei.
A oggi il dibattito è incentrato sul sostegno economico alle coppie con figli (minori), con l’intento di aiutare ex post, a procreazione avvenuta, i neogenitori. Ma ciò è insufficiente. Piuttosto, è necessario ampliare la prospettiva e considerare, a fianco delle politiche ex post, anche interventi ex ante che mettano le coppie nelle condizioni di avere il numero di figli desiderato. La decisione di diventare genitori richiede una certa stabilità e delle certezze, anche economiche. Il dualismo che si è creato nel mercato del lavoro italiano, con una quota crescente di giovani con bassi livelli di reddito, tutele inadeguate e carriere discontinue, e di lavoratori maturi con salari elevati, maggiore sicurezza del posto di lavoro e maggiori opportunità di carriera, ha fortemente penalizzato le nuove generazioni. In particolare, le giovani donne si trovano ad affrontare la scelta di diventare madri in un contesto di precarietà lavorativa e di mancanza di tutele.
In un nostro recente lavoro abbiamo usato i dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia (questionario 2006) per approfondire la relazione tra precarietà femminile e intenzione di fare figli in Italia (Modena e Sabatini 2010). Secondo la teoria economica più accreditata, il declino della fecondità sarebbe una conseguenza dell’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro. I più elevati livelli di istruzione e le migliori prospettive retributive della forza lavoro femminile avrebbero infatti causato un aumento del costo opportunità1 della rinuncia al lavoro, rendendo sempre più frequente il rinvio della maternità. Tuttavia, il rapporto tra partecipazione femminile e fecondità è cambiato significativamente in molti paesi negli ultimi due decenni (Adsera 2004). Nell’Unione Europea, il segno della correlazione è divenuto positivo, al punto che i paesi con i più alti tassi di fecondità sono oggi quelli scandinavi, gli stessi che registrano la maggiore partecipazione femminile (Ahn e Mira 2002). Questo cambiamento purtroppo non interessa il nostro paese, che si contraddistingue ancora oggi per tassi di fecondità e di partecipazione femminile tra i più bassi in assoluto in Europa.
Che cosa sta accadendo in Italia? Secondo le nostre stime, l’intenzione di fare figli è influenzata in modo significativamente negativo dalla precarietà femminile (che spesso implica frequenti intervalli di disoccupazione). Le coppie in cui la donna è precaria hanno il 3% di probabilità in meno di pianificare una gravidanza rispetto a quelle in cui la donna è impiegata a tempo indeterminato (a parità di altre caratteristiche come per esempio l’età, il numero di figli, il grado di istruzione, ecc.). La precarietà è un deterrente soprattutto per le donne più giovani e per le coppie in condizioni economiche modeste. L’interpretazione di questo risultato sembra immediata: la precarietà femminile è associata a una forte incertezza relativa ai redditi futuri e al fondato timore che la scelta di diventare madre possa compromettere ogni possibilità di realizzazione nel mondo del lavoro. Le lavoratrici precarie generalmente non godono di alcuna forma di congedo di maternità, né tanto meno di indennità parentali. Inoltre, la durata della condizione di precarietà è positivamente correlata con una diminuzione della probabilità di trovare un impiego stabile (Barbieri e Scherer 2010) e un aumento del rischio di povertà (Banca d’Italia 2009). L’esperienza quotidiana mostra che, per una giovane donna precaria, la gravidanza può portare alla conclusione del rapporto di lavoro, rendendo ancora più difficile il reinserimento professionale dopo il parto. Le lavoratrici atipiche si trovano quindi spesso costrette a scegliere tra maternità e partecipazione al mercato del lavoro. In questo quadro, la rinuncia al lavoro può avere conseguenze drammatiche per due ragioni fondamentali: 1) accentua le difficoltà finanziarie della famiglia, per giunta esasperate dalla nascita di un figlio; 2) crea per la donna il rischio di cadere in una “trappola della precarietà”, caratterizzata da una sequenza di piccoli contratti a termine senza prospettive e scarse possibilità di avere delle soddisfazioni sul piano professionale. La precarietà maschile invece non sembra avere effetti significativi sulla decisione di fare figli, a testimonianza del fatto che generalmente l’uomo non è costretto ad affrontare un trade-off tra paternità e carriera.
Le misure di sostegno alla fecondità suggerite finora dal dibattito (si vedano appunto le proposte della Conferenza Nazionale della Famiglia) sono volte, giustamente, ad aiutare le coppie con figli. Ma dimenticano, colpevolmente, le donne che sono state costrette a rimandare o rinunciare. Noi riteniamo che per sostenere la famiglia non siano sufficienti gli interventi, seppur necessari, ex post: è indispensabile combattere alla radice le cause del declino della fecondità, adottando serie politiche del lavoro che riducano la precarietà, soprattutto quella femminile.
Riferimenti bibliografici
Adsera, A. (2004). Changing fertility rates in developed countries. The impact of labor market institutions. Journal of Population Economics, 17, 17-43.
Ahn N., Mira P. (2002). A note on the relationship between fertility and female employment rates in developed countries. Journal of Population Economics, 15, 667-682.
Barbieri, P., Scherer, S. (2009). Labour Market Flexibilization and its Consequences in Italy. European Sociological Review, 25(6), 677-692
Banca d’Italia (2009). Relazione annuale sul 2008. Roma: Banca d’Italia.
Modena, F., Sabatini, F (2010). I would if I Could: Precarious Employment and Childbearing Intentions in Italy. Review of Economics of the Household, forthcoming.
1 Il costo opportunità è il costo derivante dal fatto di non lavorare (quindi principalmente il valore del mancato salario).
* Articolo pubblicato anche suwww.neodemos.it