Inversione di rotta del governo? Prima vittoria del movimento? Più o meno così i commenti della stampa all’intesa sulla scuola dell’11 dicembre tra governo e sindacati. Ma passa una settimana, e lo schema di regolamento approvato dal Consiglio dei ministri dissolve ogni ottimismo.
Un vero passo indietro c’è soltanto sulla scuola per l’infanzia. Sparisce infatti la riduzione alla sola fascia antimeridiana del tempo scolastico, e relativa “maestra unica”. Una scelta – tra dissennata e crudele per le famiglie dove si è in due a lavorare (o a cercare lavoro) - che all’anima democristiana del berlusconismo deve essere sembrata inopportuna, almeno per il momento. Ci dev’essere qualcuno, anche in questo governo, con abbastanza buon senso da non voler scaricare altri guai su famiglie già in difficoltà: tanto più per un risparmio di spesa tutto sommato modesto perché le scuole materne statali sono poco più del 50% del totale e, a differenza della primaria, hanno solo tre classi. E’ però possibile che abbia finito col pesare anche la contrarietà dei Comuni, sopratutto del Centro Nord, che gestiscono una parte importante delle materne pubbliche. Perché è a quelle scuole comunali solitamente funzionanti anche di pomeriggio che avrebbe finito col rivolgersi gran parte della domanda respinta dalle statali: e come si sarebbe potuto affrontarla, quest’onda anomala, con la disastrosa situazione finanziaria di tanti Comuni ?
Ma sulla scuola primaria invece niente, o arretramenti di sola facciata. Del resto, tra rinuncia ai possibili risparmi sulla scuola per l’infanzia e obbligo di rinviare al 2010-2011 – perché la burocrazia ministeriale non è pronta e perché bisogna evitare che gli studenti tornino in piazza – quelli previsti dal riordino della scuola superiore, ora la strada si è fatta più stretta: è infatti solo dal grande bacino della primaria (per il 90% statale, e articolata su cinque classi) che il ministro Gelmini può provare a ricavare per il prossimo anno una quantità di risparmi il più possibile vicina a quella ordinata da Tremonti.
L’obiettivo è perseguito con ostinato puntiglio, nello schema di regolamento del 18 dicembre. Lo si vede dalla decisione, che non c’era in precedenti versioni ufficiose, di intervenire non a partire dalle prime classi, ma contemporaneamente su tutte, anche se ne deriveranno discontinuità organizzative e degli insegnamenti poco gradite a bambini e genitori. La chiave di volta, quella che mette insieme tagli e ideologia, è nella distinzione tra il tempo-scuola e il modello pedagogico: è vero, infatti, che le famiglie – come nella riforma Moratti – possono scegliere tra 24, 27, 30 ore settimanali o anche le 40 ore del tempo pieno, ma il modello è comunque quello dell’”insegnante unico o prevalente “, che esclude ogni schema organizzativo-didattico in cui gli insegnanti lavorino insieme sugli allievi della stessa classe e che, anche nel tempo pieno con due insegnanti su una classe, fa delle attività del pomeriggio qualcosa di separato e di secondario rispetto a quelle del mattino.
Mai più compresenze, ripete ossessivamente Gelmini, mentre Berlusconi parla con spensierata franchezza del ritorno dei vecchi doposcuola. A tutto ciò si aggiunge che le opzioni delle famiglie potranno avere corso solo se gli organici, determinati ogni anno con decreto del governo, saranno sufficienti. Che cosa significa tutto ciò? Prima di tutto che dall’anno prossimo sparisce l’organizzazione cosiddetta “per moduli”, fatta di tre insegnanti ogni due classi e di due-tre pomeriggi coperti la settimana, che riguarda il 75% delle classi. Il grosso dell’auspicato risparmio è qui, perché gli insegnanti che esuberano dallo schema-base di un insegnante per classe verranno utilizzati per rispondere alle opzioni di tempo lungo o pieno delle famiglie solo se di ruolo (mentre circa 30.000 precari non vedranno rinnovato il loro contratto), e perché quel bacino di disponibilità è destinato, salvo improbabili rimpiazzi, a diminuire anno dopo anno per pensionamenti ed altre cause.
L’altro lato della medaglia – quello, appunto, dell’insegnante “unico o prevalente” – consiste nel fatto che, anche dove ci sono più insegnanti nella stessa classe (e ci sono sempre, in tutti i diversi assetti di tempo-scuola, e perfino in quello a 24 ore se si considerano quelli di sostegno, religione, lingua straniera), dev’essere bandita ogni flessibilità didattica e ogni specializzazione professionale, e quindi classi aperte, laboratori, percorsi di recupero, corsi di italiano lingua 2, didattica per piccoli gruppi. Tutto quello, insomma, che fa della nostra scuola primaria una scuola di buona qualità. Come conferma, proprio in questi giorni, l’indagine internazionale TIMSS per matematica e scienza.
Tremonti, del resto, lo dice da tempo che la nostra scuola primaria è buona, ma che “ non possiamo permettercela”. Al macero, dunque, trent’anni e più di elaborazioni e pratiche didattiche innovative. E al macero anche l’autonomia organizzativa e didattica delle scuole. E’ proprio qui, nell’imposizione centralistica di un modello pedagogico di Stato e nell’invasione di campo rispetto alle competenze delle istituzioni scolastiche, l’operazione più velenosa. A poche settimane dalla scadenza delle iscrizioni, i dirigenti scolastici non sanno ancora rispondere ai genitori che chiedono in che tipo di scuola – per orari, insegnamenti, didattica – saranno il prossimo anno i loro figli. Tutt’altro segno avrebbe avuto, anche in una logica di riduzione degli organici (che in effetti in molte piccole scuole sono spesso più numerosi del necessario), la scelta di lasciare alle scuole la prerogativa di come utilizzarli secondo i variabilissimi bisogni dei ragazzini e delle famiglie.
La partita, intendiamoci, non è ancora chiusa. Sul regolamento devono pronunciarsi il Consiglio di Stato, la Conferenza unificata Stato-Regioni, il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. E certamente peseranno anche le scelte che entro febbraio faranno le famiglie. Ma non è un buon segno che i sindacati abbiano, sebbene non del tutto convinti, dato un qualche via libera. Come se la cosa che interessa di più fosse la salvaguardia degli organici che passa attraverso la riconferma dei posti di tempo pieno del 2008-2009. E quindi la scuola primaria del Nord (a Milano le classi a tempo pieno sono il 94%, a Roma il 52%, a Palermo e Napoli meno del 5%). Mentre nelle aree meridionali, se con l’eliminazione dell’organizzazione per moduli sparisce ogni dinamica innovativa, è del tutto improbabile che l’organico che si libera possa essere utilizzato in un tempo pieno meno richiesto da famiglie in cui sono poche le donne che lavorano; meno amato dai tanti insegnanti poco abituati e poco propensi a lavorare insieme (e quindi a lavorare di più), trascurato o temuto da enti locali finora poco intenzionati a garantire i locali e i servizi necessari.
Anche il tempo pieno, del resto, sembra destinato ad essere una riserva indiana, un tempo-più-lungo per esigenze familiari ma impoverito di qualità didattica e isolato all’interno di una scuola tosata di ogni flessibilità. Chissà se i soloni, anche di sinistra, che hanno pontificato nei mesi scorsi a favore della restaurazione del “maestro unico”, si renderanno conto del significato del disegno che hanno contribuito a sostenere. Possibile che la nostalgia dei tempi della loro infanzia possa oscurare le differenze tra i compiti della scuola primaria di oggi – che si misura con l’informatica, la lingua inglese, l’italiano per stranieri, i tanti ragazzini disabili, le prime e seconde generazioni dell’immigrazione – e quella di cinquant’anni fa, quando a scuola ci andava la metà dei ragazzi di oggi e quando tutto sembrava potersi esaurire nel leggere-scrivere-far di conto?
Forse ha ragione il Censis che, nelle pagine dedicate ai processi formativi del Rapporto di quest’anno, denuncia l’incapacità della politica di proporre una qualunque idea di qualificazione della funzione educativa. Perché è in questo contesto che finiscono con l’avere legittimità anche le proposte più ignoranti e regressive e che le forze politiche, invece che concordare sensatamente su dove togliere e dove mettere le risorse, fanno delle strategie di riduzione della spesa pubblica un campo di scontro ideologico tra fautori ed oppositori pregiudiziali. Il Quaderno Bianco sulla scuola del 2007, elaborato da un gruppo di esperti del ministero dell’Economia e della Pubblica Istruzione, segnala in modo incontrovertibile, e nel quadro di una comparazione europea, dove ci sono gli sprechi da superare e dove, viceversa, mancano le risorse. Ma se il governo fa della riduzione della spesa un’ideologia, l’opposizione politica e sociale non è stata finora capace di proporre all’opinione pubblica dove e come spendere meglio per poter spendere di più. Un bel guaio, di cui si vedono i primi risultati.