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L'Italia svantaggiata: la scuola nel Mezzogiorno

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Negli ultimi mesi, “l’allarme scuola” è stato, accanto ad altri, usato per accrescere lo stato di ansia del paese; gettato in pasto agli opinionisti di grido per lanciare proclami e, spesso, solo per produrre consensi verso posizioni nostalgiche e autoritarie. Forse è opportuno fare un po' di silenzio intorno alla scuola e provare ad ascoltare chi, al suo interno, ci vive ogni giorno e ogni giorno, con grande fatica, tenta di farla funzionare e di rispondere a bisogni e attese di cui sembra che la politica si sia, in realtà, dimenticata, e non soltanto quella di “governo”.

Queste pagine vogliono essere una riflessione su alcuni dei problemi del nostro sistema scuola oggi, con una attenzione particolare alla realtà meridionale; non ci possiamo infatti nascondere che se tutta la scuola italiana è in una situazione di affanno e di difficoltà, quella meridionale lo è in una modalità più acuta e preoccupante. Non ci sono solo “tante Italie” con riferimento al sistema produttivo, ma ci sono anche tante scuole diverse a nord e a sud, nelle grandi metropoli e nelle medie città, nelle regioni più ricche e nelle province autonome, nelle regioni a statuto speciale e in quelle a statuto ordinario.

Queste differenze stanno assumendo caratteristiche sempre più marcate a dieci anni dall'attribuzione dell’autonomia alle istituzioni scolastiche (d.P.R. 275/1999), che hanno dovuto fare i conti con un sistema economico, sociale e culturale variegato e non di rado deprivato. Si pensi solo, a titolo di esempio, alla differenza fra nord e sud nel rapporto fra scuola, formazione professionale e sistema produttivo; o alla sistematica diffusione del tempo prolungato nelle realtà a più alta occupazione femminile ed, invece, alla più limitata presenza di questo tipo di organizzazione del tempo scuola in moltissime aree meridionali o, ancora, alla diffusione del sistema degli asili nido pubblici e privati nelle varie regioni.

Se questi dati vengono collegati all’alto tasso di dispersione scolastica che caratterizza alcune regioni meridionali, considerando che il “tempo scuola”, e soprattutto “il tempo scuola di qualità”, come sottolinea anche l’ultimo rapporto di Bankitalia, è una delle variabili forti che determinano successo e fallimento, si comprende ancora meglio come sia opportuno parlare di una vera e propria “questione meridionale” della scuola.

I dati forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione nel rapporto su La dispersione scolastica. Indicatori di base. Anno scolastico 2006/07 sono da questo punto di vista assai significativi. Essi si riferiscono sia al numero dei ripetenti, dei promossi con debito, dei ritardi accumulati, dei passaggi ad altro indirizzo, sia alla quota dei giovani tra i 18 e i 24 anni d’età che possiede la sola licenza media ed è fuori dal sistema di istruzione-formazione. Si ricorderà che questo è uno degli indicatori adottati dall’Unione Europea per monitorare i progressi nell’elevamento delle competenze della popolazione, in linea con gli obiettivi educativi espressi dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000 e definiti nel programma europeo “Istruzione e Formazione 2010”.

Secondo tali parametri, l’Italia, nonostante i miglioramenti osservati a partire dal 2000, occupa ancora una posizione di ritardo: nel 2006 il 20,8% dei ragazzi era fermo alla licenza media e non frequentava alcun corso di formazione, contro una media europea del 15,3%. Le regioni con le più evidenti difficoltà sono la Valle d’Aosta (29,5%), la Campania (28,8%), la Sicilia (26%) e la Puglia (23,9%). Come si vede ben tre sono regioni meridionali.

Proviamo a ragionare allora su come rispondere alla sfida dei confronti internazionali senza restare schiacciati fra arroccamento difensivo e “politica di tagli” indiscriminati o, peggio ancora, da irragionevoli cacce al colpevole (è recente la risibile polemica “sull’ignoranza dei professori meridionali”).

Anche i confronti internazionali sulla “qualità dell’istruzione” (indagine IEA prima e OCSE–PISA poi) restituiscono un quadro sicuramente non confortante delle competenze acquisite dagli alunni italiani rispetto alla lettura, alla matematica e alle scienze. Benché, come è stato da più parti sottolineato, non sempre i dati siano comparabili (perché diversi sono i sistemi scolastici, i metodi e gli argomenti studiati nei vari ordini di scuola e diverse sono le fasce di età corrispondenti a ciascun ordine), si tratta tuttavia di confronti che non possono essere elusi e devono rappresentare una occasione di riflessione critica e un antidoto contro ogni autoreferenzialità.

Sulla spinta anche di questi elementi di analisi è importante aprire un momento di riflessione su quello che “sta dietro” il risultato scolastico e sulla pluralità di soggetti ed istituzioni che concorrono al successo formativo dei nostri alunni.

Quando al mattino i nostri bambini e ragazzi entrano a scuola, accanto a loro, non ci sono solo gli insegnanti, il personale non docente, il dirigente, ma l'impiegato del comune o della provincia che ha scritto all'azienda di competenza di versare il gasolio nelle bonze, gli assessori comunali o provinciali che hanno rivisto le piante organiche e hanno individuato come e chi inviare per assistere i disabili, gli assessori regionali che hanno previsto in bilancio i fondi per la fornitura gratuita dei libri di testo, per l'edilizia, per la manutenzione ordinaria, ecc. Si tratta di un sistema complesso che fa funzionare, o non funzionare, le nostre scuole. Non possiamo nascondere il disagio di tante scuole italiane rispetto alla fatiscenza dei locali, all’assenza di riscaldamento, alla mancanza di attrezzature. L'abitudine al degrado è, spesso, appresa anche vivendo fra banchi rotti e aule scrostate, bagni indecorosi e palestre malsane, realtà che non suscitano più, né da parte dei ragazzi e dei loro genitori né da parte degli operatori della scuola, alcuna ribellione civile.

Non si tratta solo di quello che c’è dentro le scuole, ma anche di ciò con cui i ragazzi si confrontano fuori: il bisogno di formazione e di istruzione non può più esaurirsi all’interno del monte-ore scolastico; opportunità, proposte, interventi che guardano anche al “fuori” sono essenziali, specie per i segmenti di popolazione scolastica più “sofferente” (i bambini stranieri e chi ha difficoltà di apprendimento, portatori di handicap e fasce a rischio di emarginazione sociale).

Non vogliamo con questo cadere nella trappola di chi, facendo apparire tutto troppo complesso, finisce con l'accettare l'inevitabilità del dato e la rinuncia ad ogni possibile cambiamento, né tantomeno autoassolverci ed assolvere chi dentro la scuola lavora, ma segnalare come, per dare una risposta positiva alle sofferenze del sistema scuola, bisogna ripartire, appunto, da un'ottica sistemica. Essa deve vedere al centro il rapporto fra scuola e altri soggetti istituzionali che devono occuparsi di formazione e istruzione, non solo rivolgendosi alle giovani generazioni, ma anche agli adulti, ai nuovi analfabeti, agli immigrati, con la consapevolezza che i percorsi di apprendimento attuali sempre più riguardano l'intero arco della vita.

Secondo le cifre segnalate dal Ministero della Pubblica Istruzione, gli enti locali hanno speso nel 2005 poco meno di 1.000 euro per studente. Tale soglia è generalmente superata nelle regioni del Nord e nel Lazio. In particolare, spicca il dato del Trentino Alto Adige, dove la spesa pro-capite raggiunge i 2.500 euro. In Emilia Romagna, Lombardia e Friuli Venezia Giulia gli enti locali hanno destinato agli studenti finanziamenti superiori alla media nazionale di circa il 35-40%. Viceversa, nelle regioni del Sud la spesa è sistematicamente al di sotto alla media nazionale. In Puglia (569 euro per studente) e in Campania (614 euro) lo scarto negativo dal valore nazionale raggiunge, rispettivamente, -41% e -36%.

Le disuguaglianze regionali sono più marcate nella scuola pre-primaria e più contenute nella secondaria di II grado. Per le scuole dell'infanzia e del primo ciclo i finanziamenti più cospicui si registrano in Lombardia (per la scuola dell'infanzia circa 3.000 euro pro-capite), in Emilia Romagna e in Trentino Alto Adige (cfr. a questo proposito, MIUR, La scuola in cifre 2007).

È importante ricordare che questi dati sono rilevati dai bilanci delle scuole e degli uffici scolastici regionali. Non comprendono, dunque, tutti gli interventi diretti da parte degli enti locali rivolti all'edilizia scolastica, alla manutenzione degli edifici, ai servizi di mensa, ai servizi di pre-scuola, ai trasporti. È ragionevole pensare che se sommassimo l’investimento pro-capite diretto degli enti locali a quello erogato tramite i bilanci della scuola, il gap fra le diverse Italie rischierebbe di apparire incolmabile.

Tutto questo si traduce in una enorme “diseguaglianza delle opportunità” fra bambini e ragazzi di aree diverse del paese, soprattutto per i più deboli per i quali la scuola finisce per rappresentare molto spesso l'unico interlocutore, l'unica istituzione a cui rivolgersi e dalla quale si riceve quasi sempre una risposta inadeguata.

Nei confronti della disabilità, ad esempio, molta strada è stata fatta nella scuola italiana, ma, mentre in alcune realtà altri servizi territoriali intervengono con supporti adeguati (dalla logopedia al nuoto, dall'ippoterapia alla psicomotricità, all'assistenza domiciliare, etc.), nelle realtà meridionali i servizi sono deficitari sia per quantità che qualità. Chi non è in grado di affrontare il grande impegno finanziario richiesto dalle prestazioni specialistiche utili, e in qualche caso indispensabili, in relazione alle diverse forme di disabilità, chiede alla scuola di intervenire, di sopperire, di sostituirsi agli altri servizi e istituzioni, con il prevedibile risultato di disagio e frustrazione. Un solo esempio: il Comune di Palermo non ha più previsto nella sua pianta organica gli assistenti ai disabili e via via che il personale va in pensione non viene più sostituito. Le singole istituzioni scolastiche non hanno le risorse umane, né le condizioni economiche e contrattuali per sopperire: e allora? Rimane la quotidiana ricerca della soluzione “tampone” che possa consentire di andare avanti.

Un secondo segmento della popolazione per il quale la “disuguaglianza delle opportunità” è sicuramente enorme è quello dei bambini e ragazzi stranieri. Anche qui possiamo registrare un enorme divario territoriale negli interventi mirati all’accoglienza, allo sviluppo delle competenze linguistiche, all’inclusione sociale. Alla ricchezza progettuale, allo spiegamento di energie di regioni ed enti locali di alcune aree del paese, fa da contraltare la solitudine delle istituzioni scolastiche di città come Palermo dove, negli ultimi anni, l’investimento in questo settore è stato prossimo a zero.

L’analisi della spesa degli enti locali ci consente di mettere al primo posto le carenze di un sistema integrato di istruzione e formazione, che coinvolga più soggetti istituzionali non in un'ottica di assistenzialismo volto ad una riduzione della conflittualità sociale e al contenimento del disagio, ma in un'ottica di sviluppo e di promozione. Se è vero che il grado di democrazia di un paese si misura anche dal grado (quantitativo e qualitativo) di istruzione dei suoi cittadini, allora dove sta andando il Paese, dove sta andando il Sud?

* Maria Rosa Turrisi è Dirigente scolastico presso la Scuola Media Dante Alighieri di Palermo e Mari D'Agostino insegna Linguistica italiana presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Palermo.

Tratto da www.nuvole.it
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