Il fatto è che “le merci e il lavoro si muovono molto più lentamente dei capitali, in risposta ai segnali internazionali di prezzo”. Così scriveva James Tobin, anno 1978, nell'articolo A Proposal for International Monetary Reform, pubblicato su The Eastern Economic Journal. In questa frase apparentemente banale, c'è il nucleo di base della proposta dell'ormai famosa “Tobin tax”: che in realtà era già stata lanciata da Tobin qualche anno prima a Pricenton nelle Janeway Lectures. Era passata pressoché inosservata, ma che avrebbe avuto invece grande risonanza con le crisi valutarie seguìte alla fine del sistema di Bretton Woods; per poi rotolare negli anni e nei secoli e arrivare fino a noi, dopo aver infiammato anche piazze e movimenti (vastissima la campagna dal basso per la “tassa di Robin Hood”): fino a convincere la riluttante Europa, in preda alla turbolenza finanziaria e alla depressione economica, ad inserirla tra le sue politiche. È successo il 22 gennaio all'Ecofin. Dove con un procedimento raramente usato finora, la “cooperazione rafforzata” (vale a dire: chi era contrario resta contrario, ma non blocca tutto), 11 paesi su 27 hanno avviato il percorso che entro pochi mesi dovrebbe far diventare realtà fiscale l'idea del premio Nobel Tobin: gettare un po' di sabbia in un ingranaggio fin troppo oliato (“to throw some sands in the wheels of our excessively efficent international money markets”). Quello dei capitali, che con il suo funzionamento può stritolare l'economia reale, delle merci e del lavoro.
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