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La patrimoniale non è una buona idea? Ne aspettiamo un'altra

11/03/2011

Nelle settimane scorse si è accesso l'ennesimo fuoco di paglia intorno a intenzioni vere o presunte d'introdurre una "tassa patrimoniale" alla scopo di aggredire il debito pubblico del nostro paese, e spingerlo su un sentiero di discesa. Tutti hanno guardato il dito (la patrimoniale) e non la luna (il debito pubblico). Così, chi ha bocciato la patrimoniale, non si è sentito in dovere di proporre un'alternativa valida su come abbattere in maniera sollecita la nostra montagna debitoria.

Come tutte le imposte, anche la cosiddetta patrimoniale ha vari pro e contro, di cui potete trovare un resoconto anche nella nostra rivista. Si tratta dunque di materia complessa, ma nel nostro paese c'è l'aggravante, anzi il virus letale, della fortissima carica ideologica e demagogica che sprigiona questo strumento fiscale. Per cui, su questa strada, non si riesce a fare un passo avanti.

Il mio intervento non e però nello specifico della proposta. Ma sullo scopo che si prefigge, che invece è scomparso dalla scena. La gestione del debito pubblico sarà il primo e soverchiante vincolo e problema che graverà sulle politiche economiche dei governi occidentali per molti anni. E l'Italia, lo sappiamo anche se non ce lo diciamo con la dovuta determinazione, resterà in cima alla lista dei paesi a rischio. Vorrei provare a dare un quadro della situazione, e qualche richiamo al senso di realtà.

Secondo Eurostat, l'Italia ha chiuso il 2010 con un rapporto debito/PIL del 119%, in risalita dagli anni precedenti. Le nuove norme del Patto di stabilità e crescita (PSC), introdotte l'autunno scorso per rassicurare gli investitori sulla volontà di riportare sotto controllo i debiti sovrani dei paesi euro, ci richiederebbero un piano di rientro di 1/20 all'anno dell'eccesso del debito/PIL sulla fatidica quota 60%. Dunque si tratta di 1/20 di 59 punti di eccesso, ossia circa 3 punti di PIL all'anno.

La dinamica tendenziale del debito/PIL può essere ricondotta a poche variabili: il tasso d'interesse medio sul debito esistente, il tasso di crescita nominale del PIL (crescita reale + inflazione), il saldo primario del bilancio pubblico (gettito fiscale totale - spesa totale al netto degli interessi). Se il tasso d'interesse è maggiore della crescita nominale, il debito/PIL tende a crescere. Per stabilizzarlo o per farlo scendere, occorre creare un avanzo fiscale primario (spendere meno o tassare di più) e mantenerlo per un numero sufficiente di anni. Il tasso d'interesse a lungo termine (titoli di stato decennali) nel corso del 2010, in media è stato del 4% (1,3% sopra quello tedesco), con una punta del 4,2% (1,7% sopra quello tedesco). La crescita nominale annuale media 2000-08 (cioè prima della crisi) è stata del 4,2% (1,4% reale + 2,8% inflazione). Le previsioni della maggior parte degli istituti, per i prossimi due-tre anni, sono inferiori, sia dal lato reale che da quello dell'inflazione. Sempre nel 2010, il saldo primario della pubblica amministrazione è stato leggermente in surplus, 0,7% del PIL. Questo è il quadro che possiamo definire dello status quo, riassunto nella tabella seguente

Tabella 1



In base alla regoletta ricordata sopra, risulta evidente che il mantenimento dello status quo non è compatibile con la riduzione del debito/PIL, sempre che non vi sia invece una leggera spinta all'aumento. La ragione è che il contributo alla riduzione del debito/PIL dato dalla crescita nominale è, nella migliore delle ipotesi, interamente divorato dal pagamento degli interessi; il rimanente contributo proveniente dall'avanzo primario è di entità trascurabile. Il fatto è che se il nostro debito/PIL non comincia a scendere, il quadro clinico può peggiorare. Infatti il tasso d'interesse sul nostro debito dipende, tra l'altro, dal "premio di rischio" (il famigerato spread) chiesto dagli investitori rispetto ai paesi virtuosi (la Germania). Se il nostro debito/PIL si allontana da quello tedesco, anziché avvicinarsi, il nostro tasso d'interesse salirà, dando un'altra spinta al rialzo al debito/PIL. Insomma scatterebbe un letale circolo vizioso.

Ora, proviamo a chiederci, nello scenario della tabella 1, quanto dovrebbe essere l'avanzo primario per realizzare il piano di rientro richiesto. Risposta: 3,5% del PIL il primo anno, con un piccola riduzione di un decimale ogni anno seguente. Il risultato è dato da un modello1 che tiene conto del fatto che la riduzione del debito/PIL rispetto a quello tedesco abbassa il nostro tasso d'interesse (circa mezzo punto l'anno), ma che anche la Germania, partendo da un debito/PIL di oltre il 70%, adotti il piano di riduzione richiesto dal PSC. Per l'Italia stiamo parlando di una manovra netta da 54 miliardi, da conficcare come un cuneo nei nostri conti pubblici per numerosi anni. Segnalo che il modello, ottimisticamente, non considera l'ipotesi che questa manovra abbia effetti negativi sulla crescita tendenziale. Se pensiamo al grosso sforzo che è stato chiesto al paese (e al suo Ministro dell'economia) per raggranellare l'attuale 0,7% di avanzo primario, abbiamo un'idea della situazione estremamente problematica in cui ci troviamo. Siccome l'Italia è il paese meno peggio tra i più rischiosi, e quindi figuriamoci gli altri, nessuna persona di buon senso può credere che il nuovo PSC verrà mai applicato seriamente, trattandosi dell'ennesima verniciatura della facciata di un edificio mal costruito, buttata lì in fretta e furia per sedare l'opinione pubblica tedesca. Ciò nonostante, le cifre che ho fornito dicono che comunque l'Italia dovrà dare un segnale robusto di riduzione del debito/PIL.

Anche Francesco Giavazzi ha scritto che l'approccio unicamente fiscale al problema dei debiti sovrani è un errore2. La vera soluzione è più crescita (reale) per tutti. La crescita è sempre una buona cosa, una medicina per tanti mali. Ma pochi si chiedono: quanto dovremmo crescere? Ho riutilizzato lo stesso modello di prima per calcolare quale crescita tendenziale nominale sarebbe necessaria per realizzare il piano del nuovo PSC lasciando invariato l'attuale avanzo del bilancio primario, cioè senza ulteriori sacrifici fiscali: il risultato è 6%. Se prendiamo per buono il margine superiore di tolleranza dell'inflazione della BCE, 2,5%, il PIL del nostro paese dovrebbe crescere mediamente il 3,5% l'anno per parecchi anni.

Sono ormai trent'anni che il nostro paese (e il resto dell'Europa "matura", per la verità) non è più in grado di esprimere un trend di crescita di questa entità. In tutta franchezza, è un'ipotesi che possiamo seriamente prendere in considerazione? Certo, non esiste un destino ineluttabile che la impedisca, ma per realizzare un tale obiettivo occorrerebbe - tra molti altri ingredienti sociali, politici ed economici di cui non si vede traccia - una manovra fiscale iniziale di riduzione delle entrate di entità tale che difficilmente potrebbe trovare compensazione dal lato delle uscite, almeno per il periodo di tempo necessario a dar frutti sulla crescita tendenziale. Il contesto internazionale, soprattutto quello europeo che offre lo sbocco principale del nostro export, difficilmente potrà aiutare. Nel frattempo, i conti pubblici potrebbero peggiorare e dovremmo implorare e sperare che la Commissione europea e gli investitori accettino la nostra promessa-scommessa sull'ennesimo rinvio della riduzione del debito/PIL. Sperimentiamo così ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, uno dei peggiori difetti della cocciuta insistenza euro-tedesca sul controllo dei conti pubblici per mezzo di tetti e vincoli: vengono inibite le politiche virtuose che hanno costi nel breve periodo ed effetti benefici nel lungo periodo.

Se non si vuol abbattere il debito con interventi fiscali straordinari, mirati e concentrati nel tempo, restano programmi meno ambiziosi, per usare il linguaggio della Commissione europea. Non a caso, il Ministro Tremonti continua a parlare di riforme a costo zero, come per esempio la riforma dell'articolo 42 della Costituzione; Giavazzi ha rispolverato l'abbattimento delle tariffe minime di notai e avvocati; e altre cose del genere. Con qualcosa in più di crescita, un po' più d'inflazione della media europea (ma che pagheremmo dal lato competitività), forse con qualche piccolo sacrificio fiscale in più, magari a carico degli enti locali grazie alla provvidenziale Rivoluzione Verde, un 1% di debito/PIL in meno all'anno è alla nostra portata, così che fra cinque anni saremmo di nuovo alla casella di partenza del 2000. Insomma, il classico tirare a campare, sperando nella buona sorte e di non venir castigati. Qualcuno ha idee migliori?

1. R. Tamborini, "The new Stability and Growth Pact", Dipartimento di Economia, Università di Trento, 2011.
2. F. Giavazzi, "Perché il Piano Merkel è un errore", La Voce, 2010, http://www.lavoce.info

Tratto da www.nelmerito.com
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