Trentotto milioni di americani, uno su otto, sono in condizioni di povertà tali da ottenere i food stamps, un tesserino che permette di fare acquisti di cibi preconfezionati nei supermercati, per un valore medio di 133 dollari al mese a testa. Se consideriamo i bambini, la percentuale sale a un bambino su quattro: siamo a livelli da paese del terzo mondo. Sei di questi trentotto milioni (il 2%) vivono in famiglie senza alcuna entrata monetaria - né redditi da lavoro, né trasferimenti pubblici, pensioni, indennità di disoccupazione o altro - a parte i food stamps. Ogni giorno 20 mila nuovi americani ne fanno richiesta; negli ultimi due anni, per effetto della crisi, gli utilizzatori sono aumentati del 50%; il numero di chi non ha altri redditi è raddoppiato in Florida e, nella contea di Detroit, è arrivato al 4% della popolazione, secondo il New York Times del 3 gennaio scorso. Nel 2010 il governo federale spenderà 60 miliardi di dollari - meno del 10% degli stanziamenti straordinari per crisi finanziaria - per questo programma, che è l'unico strumento per affrontare le situazioni di povertà in un sistema di welfare ridotto all'osso.
Ora reggetevi forte: una torta di uguali dimensioni sta per essere divisa non tra i 38 milioni di americani più poveri, ma tra 100mila banchieri che saranno pagati per il 2009 mezzo milione di dollari a testa in media. Goldman Sachs pagherà ai suoi 28 mila dipendenti in media 595 mila dollari, in tutto 16,7 miliardi di dollari: un premio per uno degli anni con i più alti profitti della sua storia. JPMorgan darà ai suoi 25 mila addetti alla banca d'investimento 463 mila dollari in media, 11,6 miliardi di dollari complessivi, secondo il New York Times del 10 gennaio. Nell'insieme, le prime cinque banche americane nei primi nove mesi del 2009 hanno accantonato 90 miliardi di dollari per pagare stipendi e «premi aziendali» (bonus) a qualche centinaio di migliaia di dipendenti. Tutte e cinque hanno ricevuto dal governo enormi crediti di emergenza nella crisi del 2008; di fronte alle proteste di opinione pubblica e Congresso, ci sono stati tentativi di porre vincoli ai pagamenti stratosferici, e le banche hanno reagito rimborsando subito i prestiti ottenuti per essere di nuovo libere di distribuirsi compensi milionari. Alcuni top manager riceveranno decine di milioni di dollari, mentre i «poveri» impiegati mille volte di meno.
È un livello di disparità che si è affermato durante il «boom» della new economy alla fine degli anni '90. Nel 1998 Sanford Weill, capo di Citigroup, riceveva compensi per 167 milioni di dollari, 4500 volte il salario di un suo lavoratore non qualificato. Ma - come denunciava dieci anni fa Seymour Melman in After Capitalism - è alla Walt Disney che le disparità superavano di gran lunga quelle tra Paperone e i Bassotti: nel '98 il presidente della società Michael Eisner venne pagato 575 milioni di dollari, 15.500 volte il salario lordo di un lavoratore dell'azienda.
Il problema è che disuguaglianze di questo tipo sono diffuse in tutta l'economia. Nel 2007 gli amministratori delegati delle 365 maggiori aziende Usa sono stati pagati 500 volte di più del dipendente medio e per le imprese della graduatoria Fortune 500 il divario di retribuzioni è cresciuto di dieci volte tra il 1980 e il 2007. Nell'insieme, il rapporto tra quanto guadagna il 10% più ricco e il 10% più povero degli americani è cresciuto del 40% rispetto al 1975, con balzi forti durante le presidenze di Bush padre e Bush figlio. Questi dati vengono dal libro di Richard Wilkinson e Kate Pickett La misura dell'anima. Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici, appena pubblicato in Italia da Feltrinelli e mostra in modo convincente che, a differenza della retorica liberale, alte disuguaglianze non stimolano la crescita economica e hanno gravi conseguenze in termini di minor benessere, maggiori problemi sociali e minor durata della vita.
Nel primo decennio del duemila, non c'è stato alcun aumento dei posti di lavoro e quasi tutta la crescita del reddito è finita nelle mani del 10% delle famiglie più ricche. Come mostrano le analisi di Jeff Madrick della New School, dal 1989 i salari reali (medi) dei lavoratori maschi sono rimasti immutati per i laureati e sono diminuiti notevolmente per chi ha un'istruzione secondaria, mentre le donne hanno recuperato in parte il divario salariale nei confronti degli uomini. Il salario minimo è fermo ai livelli che aveva negli anni '60.
La crisi finanziaria è arrivata su un'economia reale segnata da un lungo declino delle capacità produttive e da una forte dipendenza dall'estero: l'eccesso delle importazioni sulle esportazioni è arrivato al 5% del Pil (la Germania ha un avanzo del 6,4%) e una quota crescente dell'enorme debito Usa viene finanziato dall'estero. I conti pubblici sono in profondo rosso, anche per una spesa militare che resta pari alla metà di quanto tutto il mondo spende per le armi, e si sono aggravati con le misure prese di fronte alla crisi della finanza. A documentare gli effetti della crisi c'è un nuovo rapporto, Battered by the storm, pubblicato a dicembre dall'Institute for policy studies e altre organizzazioni progressiste (tra gli autori ci sono John Cavanagh e Barbara Ehrenreich, si scarica dal sito http://www.ips-dc.org/reports/battered-by-the-storm). Negli Usa solo il 57% dei senza lavoro ha un'indennità di disoccupazione, pari a metà del salario precedente, e molti hanno perso il diritto all'assistenza sanitaria. Il principale programma federale di sostegno ai redditi, il Temporary Assistance for Needy Families, ha meno del 30% delle risorse necessarie a portare sopra la soglia della povertà quei 50 milioni di americani ora al di sotto. Buchi così grossi nel welfare Usa hanno lasciato ai food stamps il compito di distribuire almeno un po' di cibo.
L'alternativa che viene proposta in questo studio è un piano di 400 miliardi di dollari, destinati per 100 miliardi ai programmi sociali di sostegno ai redditi e ai proprietari di case requisite dalle banche, per 40 miliardi alla creazione di un milione di posti di lavoro nel settore pubblico e per 270 miliardi per coprire i deficit dei governi statali e locali per il 2010. Tutto questo potrebbe essere finanziato dall'aumento delle tasse sui ricchi e sulle operazioni finanziarie speculative, e da misure contro l'uso dei paradisi fiscali.
Di fronte a problemi così gravi, un piccolo segnale è venuto ieri dall'amministrazione Obama, che si è messa alla ricerca di un modo per tassare la finanza e recuperare una parte dei fondi spesi per i salvataggi dell'anno scorso (mancano 120 miliardi di dollari per rientrare dai 700 spesi finora). È ancora braccio di ferro tra Casa bianca e Tesoro per decidere se tassare i bonus dei top manager, gli extraprofitti delle banche, o seguire gli esempi di Gran Bretagna e Francia che hanno imposto una tassa del 50% - da far pagare alle aziende - sui «premi» più alti distribuiti ai banchieri (in Italia, al solito, il dibattito non esiste nemmeno). Ma la novità più sorprendente è che a Washington si riparla nientemeno che di una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali - la Tobin tax proposta da decenni dai movimenti di tutto il mondo - per ridurre gli eccessi della finanza e generare risorse di cui i conti pubblici hanno un disperato bisogno. Dopo l'ubriacatura della finanza, finalmente una risposta della politica?