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Dal welfare al bankfare. La Grecia e l'Europa

24/06/2011

Perché dobbiamo preoccuparci della crisi greca? Perché è il “modello sociale europeo” che rischia di sparire.

 

Come è cominciato. E’ ormai noto. La crisi dei prestiti sub-prime, scoppiata negli Usa, si è propagata in tutto il mondo attraverso il canale finanziario, travolgendo le banche di tutto il mondo occidentale. La necessità di salvare le istituzioni finanziarie ha trascinato nel baratro le finanze pubbliche di tutti i paesi. Ai costi dei salvataggi bancari si sono aggiunti i costi della recessione. La crisi economica globale infatti ha ridotto il reddito in tutti i paesi e quindi anche le entrate fiscali dei governi. Questo ha peggiorato drammaticamente i conti pubblici in tutti i paesi, aumentando il rapporto del debito sul Pil, sia attraverso la riduzione del denominatore (Pil), sia attraverso l’aumento del numeratore. E infine, il circolo vizioso si chiude con le politiche di austerità necessarie per ridurre i disavanzi e il debito, che innescano un nuovo ciclo di riduzione del Pil e aumento dei disavanzi. L’Irlanda non è che l’esempio più drammatico: aveva un rapporto debito/Pil del 25% prima della crisi, il salvataggio bancario è costato 42 punti di Pil la recessione e le politiche di austerità hanno aggiunto il resto, portando il rapporto debito/Pil al 112%. E’ così passata, nel solo arco di 3 anni, da alunno modello a PIG1 (una sola I e senza S, almeno per ora), costretto ad accettare prestiti e pesanti condizioni di austerità da parte della “Troika” (Fondo monetario, Banca Centrale Europea, e Commissione Europea).

 

 

 

Una tragedia greca. Ma è la tragedia della Grecia che si recita, giorno dopo giorno, nelle strade e nelle piazze di Atene, nelle rissose riunioni della “Troika”, e in quelle più opache della finanza, che, amplificate dai mezzi di comunicazione, tengono con il fiato sospeso non solo i governi dei PIIGS (doppia I e S), ma anche i paesi “virtuosi” i cui molto meno virtuosi istituti finanziari hanno beneficiato a piene mani della altrui dissolutezza, concedendo prestiti a quegli stessi debitori che ora biasimano.

 

 

Fonte: Bis, 2011

 

Dietro la cedevole intransigenza e gli infiniti tentennamenti della Merkel, la generosità pelosa di Sarkozy e della Banca centrale europea, stanno infatti interessi ben precisi: la liberalizzazione finanziaria ha prodotto una complessa integrazione dei mercati: secondo i dati pubblicati dalla BIS (Banca dei regolamenti internazionali) una crisi greca avrebbe conseguenze che vanno ben oltre l’Europa. Infatti, sebbene siano le banche europee quelle più esposte verso la Grecia, con le banche francesi che guidano il manipolo dei creditori, seguite dalle banche tedesche e inglesi, mentre le banche americane non presentano una elevata esposizione diretta, esse hanno tuttavia una elevata esposizione indiretta, stimata intorno ai 35 miliardi di dollari, derivante dalla vendita di assicurazioni sui prestiti concessi dai creditori europei (attraverso l'uso di uno dei più famigerati strumenti della categoria dei "derivati", i Cds ovvero Credit Default Swaps). Il fallimento della Grecia trascinerebbe dunque con sé non solo le banche europee, ma anche le banche americane, per una quota stimata intorno al 30% del debito. Non tale da creare di per sé problemi di solvibilità per il sistema bancario americano ormai ricapitalizzato, ma sufficiente per creare panico. D’altra parte, ogni dichiarazione tedesca di intransigenza fa aumentare i costi della copertura contro il rischio che la Grecia e gli altri paesi debitori non siano più in grado di far fronte ai propri impegni, e fa lievitare corrispondentemente i profitti delle banche Usa che offrono tale copertura assicurativa.

 

Quali vie di uscita? Nel Memorandum preparato nel 1945 per le negoziazioni sul nuovo ordine internazionale Keynes analizza le 3 possibili vie che si prospettano all’Inghilterra, uscita dalla guerra stremata e con un enorme debito estero (“Overseas Financial Policy in Stage III”)2. Queste sono le stesse che si prospettano ora per la Grecia3.

 

1. Fame. Le politiche di austerità unilaterale che sono state imposte alla Grecia per potersi qualificare per il prestito di salvataggio equivalgono a spingerla verso un angolo di fame. Le politiche di austerità richieste rendono impossibile la crescita necessaria per ridurre il debito, perché un paese non cresce se si riduce il reddito che può essere speso. Dal momento che la moneta unica preclude la via di uscita attraverso la svalutazione, come aveva invece potuto fare l’Italia nel 1992, l’unica via che rimane è la deflazione, cioè la riduzione di prezzi e salari. Ma, a parte la difficoltà politica di imporla, più la Grecia riesce a ridurre i propri prezzi e salari, più si accresce l’onere reale del debito. La cosa più incredibile è che si continui ostinatamente a richiedere l’attuazione di queste politiche, anche quando tutte le analisi concordano sulla inevitabilità del loro fallimento. Così come tutti temono che questo trascinerà con sé debitori e creditori. Quindi coinvolgerà tutti noi.

 

2. Ricatto. Di fronte all’evidenza del fallimento delle politiche di austerità, imposte alla Grecia in un contesto di austerità generale, senza dunque neanche un impegno da parte del resto dell’Europa ad aiutare l’aggiustamento attraverso una maggiore crescita, la “troika” è stata costretta a offrire nuove concessioni, allungamenti più o meno volontari delle scadenze, pagamento di altre tranche di credito, in cambio di sempre più aspre condizioni di austerità e politiche di privatizzazioni4. Queste decisioni, prese sempre in ritardo rispetto ai sentimenti dei mercati, e in un contesto di palese disaccordo tra le autorità europee, generano ulteriore incertezza, e, lungi dal risolvere il problema del debito, provocano un aumento degli interessi che la Grecia deve pagare sui nuovi prestiti, rendendo ogni volta più costoso e disperato il compito del suo governo.

 

3. Giustizia. L’unica soluzione possibile è rappresentata dalla redistribuzione degli oneri del risanamento fiscale. Dove la Grecia non sia lasciata sola a portare il peso dell’austerità e dell’aggiustamento: se i paesi creditori non saranno in grado di accettare i costi di una solidarietà fiscale, nella forma di trasferimenti diretti o attraverso l’emissione di euro-bonds, saranno costretti ad accettarli nella forma di una inevitabile bancarotta, che trascinerebbe con sé tutti i PIIGS, e con loro le banche dei paesi creditori. Alla fine il contribuente sarà chiamato comunque a pagare il conto.

 

Ma la vera vittima di questa crisi rischia di essere il “modello sociale europeo”. Infatti i costi diretti e indiretti dei salvataggi del settore finanziario sono pagati con drastici tagli del welfare (si vedano gli articoli e le analisi paese per paese contenute nel dossier "Donne e crisi in Europa"). Le dimensioni di questi tagli, che si abbattono principalmente sui servizi pubblici, pongono la sfida più seria al “modello sociale europeo” su cui molti, e le donne in modo particolare, speravano di poter contare, per servizi e posti di lavoro. Il modello sociale europeo rischia dunque di essere definitivamente sepolto ancor prima di essere riuscito effettivamente a decollare in molti paesi, tra cui il nostro.

 

 

 

Note

 

1 Acronimo per Portogallo, Irlanda e Grecia, che in inglese significa “porco”. A volte PIG diventa PIIGS, aggiungendo Italia e Spagna.

 

2 Si veda il bell’articolo di Anna Carabelli e Mario Cedrini, “Global current imbalances. Might Keynes be of help?”, 2008.

 

3 Keynes aveva definito le tre vie con i termini: Starvation, Temptation, e Justice.

 

4 L’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale hanno promesso un nuovo pacchetto di salvataggio di 120 miliardi di euro a condizione che Atene vari un insieme credibile di riforme per risanare le sue dissestate finanze pubbliche. Il piano prevede la vendita di imprese e proprietà pubbliche per un valore di 50 miliardi di euro entro il 2015, e una riduzione del disavanzo di bilancio pari a 6.5 miliardi di euro nel 2011. Una riduzione di questa entità richiede di raddoppiare quasi le misure di tagli e di rigore fiscale già attuate, che hanno portato la disoccupazione a livelli record e aggravato una recessione che dura ormai da tre anni.

 

 

 

Appendice.

 

Debito pubblico/Pil, 2007 e 2011

 

 

Fonte: Commissione europea, Eurostat

Tratto da www.ingenere.it
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