Ma dove sta scritto che le banche in fallimento per operazioni sbagliate o addirittura illegali devono essere salvate con i soldi dei cittadini? Da nessuna parte, a quanto pare: la Corte dell’Efta (Associazione europea di libero scambio) ha sancito con una sentenza di lunedì scorso che l’Islanda non deve risarcire i 5,8 miliardi di dollari richiesti dai governi britannico e olandese che avevano rimborsato i correntisti di una filiale della Landsbanki, la Icesave, scomparsa dopo il tracollo dei tre principali istituti di credito del Paese.
Tutto inizia nel 2008, dopo anni di crescita economica accelerata, drogata dal debito: nel 2007, il pil pro capite del Paese era arrivato a quota 40.600 dollari, come se l’islandese medio fosse diventato di colpo più ricco del suo omologo saudita o svizzero.
Con il fallimento di Lehman Brothers a New York, la politica di indebitamento che aveva portato tre banche ad avere un fatturato pari a 12 volte il prodotto interno lordo dell’Islanda si rivela insostenibile. La Landsbanki, la Glitnir e la Kaupthing, i tre principali istituti di credito collassano, la corona islandese crolla del 37% in un anno; il governo a questo punto trasferisce gli asset della Landsbanki in una nuova banca e copre le perdite dei risparmiatori islandesi, ma non di quelli stranieri, per il fallimento della filiale Icesave.
Di fronte alle minacce di Olanda e Gran Bretagna, il governo propone una legge che prevede il rimborso del debito ai creditori stranieri attraverso il pagamento di 4,5 miliardi di euro, che sarebbe gravato su ogni famiglia islandese, esattamente come è accaduto nei salvataggi delle banche di vari paesi nel corso della crisi finanziaria iniziata nel 2008 e come potrebbe avvenire in Italia con il Monte dei Paschi.
A differenza di quanto è accaduto in Grecia o in Spagna, però, a Reykjavik la popolazione si ribella e costringe il nuovo governo a indire un referendum nell’aprile 2011 per decidere se procedere o no a questo risarcimento: con il 93% dei voti la risposta è “No”. Nello stesso momento Geir Haarde, il primo ministro tra il 2006 e il 2009, viene incriminato per non aver saputo o voluto vigilare sul sistema bancario. Nel 2012 Haarde è stato condannato, sia pure senza andare in carcere, mentre David Oddsson, primo ministro fino al 2004 e poi Governatore della Banca centrale se l’è cavata.
Dal “No” islandese nasce l’iniziativa della Commissione europea e dei governi britannico e olandese, che temono si stabilisca un pericoloso precedente, una tentazione per i governi dei paesi mediterranei o per l’Irlanda, che invece ha scelto di nazionalizzare le banche e onorare tutti i debiti verso l’estero. Il governo inglese ricorre addirittura alla legislazione antiterrorismo per sequestrare i beni dell’Islanda sul suo territorio e fare pressione sul microstato nel mezzo dell’oceano Atlantico: “Ci hanno messo insieme con Al-Qaeda e con i talebani sulla lista dei gruppi terroristici” ha detto il presidente Olafur Ragnar Grimsson, “non ce lo dimenticheremo”.
Il contenzioso arriva alla Corte dell’Efta, (alla quale l’Islanda aderisce insieme ad altri Paesi non Ue come Norvegia, Svizzera e Liechtenstein) e questa conclude che le richieste dei creditori non sono fondate: “La Direttiva Ue sulla garanzia dei depositi non prevede l’obbligo per un Paese e le sue autorità di assicurare la compensazione se il sistema stesso di garanzie sui depositi non è in grado di ottemperare ai propri obblighi in caso di una crisi di sistema”, si legge nella sentenza.
A ripagare i risparmiatori inglesi e olandesi ci hanno pensato i rispettivi governi ma ora la sentenza della Corte dell’Efta, pur non vincolante nei confronti della Corte di Giustizia Ue, stabilisce un importante precedente politico e giuridico: i crediti bancari non sono sempre garantiti, e non per tutti, di fronte a una “crisi di sistema”. Uno Stato non è obbligato a farsi garante ultimo del sistema finanziario: se lo fa, è una scelta politica.
Il problema di banche cresciute a dismisura grazie proprio a conti on line e all’afflusso di capitali internazionali potrebbe ripetersi già nelle prossime settimane a Cipro, dove il 40% dei circa 70 miliardi di depositi attuali è straniero e dove il governo sta negoziando un salvataggio con il Fondo monetario.
Fabrizio Tonello