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Qualche giorno fa l’imprenditore Diego Della Valle ha acquistato pagine intere di grandi quotidiani nazionali per scrivere una lettera a deputati e senatori italiani, “Politici ora basta”, puntando l’indice contro il degrado della specie parlamentare. Molti si sono chiesti se non si trattava per caso di una nuova “discesa in campo”, l’ennesima comparsata da mago del marketing o altro. Ma cosa si è realmente compreso del suo messaggio? E, soprattutto, di quale tecnica comunicativa ha fatto sfoggio l’imprenditore marchigiano per veicolare i contenuti del suo proclama “antisistema”?
Cominciamo col dire che l’eloquio dellavalliano non è esattamente tutta farina del suo sacco. Appropriandosi dell’ecumenismo retorico della vecchia Dc, mutuato direttamente dal verbo millenario della Chiesa cattolica, dove la facciata piena di buoni principi nascondeva la prassi a volte persino feroce nel risolvere le questioni spicciole del governo, il proprietario della Tod’s, figlio di una delle terre più papaline d’Italia, usa una lingua decisamente anoressica, priva di enfasi e, per questo, appunto moderata, mai sconveniente, mai priva di aggressività, che la rende sempre, nella sua apparente saggezza, perfetta per la comunicazione mediatica di questo momento storico, al grado zero di sorveglianza culturale e senso critico.
In tv non serve l’argomentazione, è controproducente, come non serve la contrapposizione o la profondità colta. Serve, invece, la ripetizione. Perché la ripetizione ha sostituito la dimostrazione, e cioè la ripetizione ha valore di prova, come teorizza Ignacio Ramonet, direttore responsabile di Le Monde diplomatique.
Della Valle è un moltiplicatore mediatico di ripetizione, che McLuhan avrebbe sintetizzato meglio nello slogan “il medium è il messaggio”, una versione aggiornata del berlusconismo, diciamo leggermente meno rozza e volgare, ma altrettanto populista. Le intenzioni sono identiche, cambia solo il linguaggio. E con un certo linguaggio si crea narrazione e auto-mitologia, tipica dei produttori di merci e di sogni.

Già, perché ogni azienda che si rispetti crea una propria mitologia, quella che alimenta il marchio nell’inconscio collettivo. Quella di Della Valle, e per la quale fu condannato per pubblicità ingannevole, si richiama ai vecchi ciabattini che cuciono le scarpe a mano e al rapporto umano tra imprenditore e lavoratore (tradotto: tra suo nonno e le maestranze dell’età dell’oro). Peccato che non sia così: nelle sue fabbriche le scarpe non vengono cucite a mano, ma sono il risultato di una produzione industriale, seppure oggettivamente di qualità, lo ha stabilito il Garante della concorrenza e del mercato.
Anche qui l’ecumenismo retorico – assolutamente di facciata, che non ha nulla a che vedere con la vera mission aziendale, che tutti sappiamo molto diversa – ha, in un’azienda classicamente paternalista, una funzione di comunicazione. Ma la narrazione che ne fanno i media servili, assoggettati dal potente inserzionista è questa, nonostante le reprimende, quella è la legge della società di mercato e di spettacolo. Non c’è spazio per il racconto dell’operaio licenziato in tronco perché ha scritto una lettera a mister Tod’s, che sembra inventato da Paolo Volponi e di cui in pochissimi hanno parlato, e neanche per la volontà del padrone di Casette d’Ete di non avere rapporto alcuno con il sindacato, e cioè con la democrazia, se questo è sancito da un articolo della Costituzione repubblicana.
Le sue ultime esternazioni, a proposito della Costituzione, pongono il capitale al centro del lavoro e della produzione come motore dello sviluppo, della civiltà e del benessere sociale come unico regolatore e detentore del bene comune. È l’altra faccia della deregulation iniziata da Marchionne sul fronte del rapporto di lavoro e supportata da Luca Cordero e dal mondo Fiat, e per questo ancora di più pericolosa se sposa quella parte della politica usurata dal trasformismo (Fini, Casini, Rutelli).
Quando Della Valle parla appare persino distante da quello che dice: sembra ogni volta che stia per tirar fuori la frase celebre che illuminerà il nostro futuro, poi sputa fuori il solito luogo comune. Che però, e questa è un’assoluta novità, piace. Piace il modo più che il dettato, piace la forma, la frigida eloquenza, e non può allora non tornarci in mente Umberto Eco e la celeberrima “Fenomenologia di Mike Bongiorno”: “Il caso più vistoso di riduzione del superman all’everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. (…) Quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta. (…) Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. (…) In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che sa. (…) Professa una stima e una fiducia illimitata verso l’esperto. (…) Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. (…) Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all’occasione, egli potrebbe essere più fecondo di lui (…)”.
E qui, in quest’ultimo passo, c’è il segno di un cambiamento profondo, perché non è più vero. Chi parla questo linguaggio, in virtù di un impoverimento linguistico e culturale di tutto il paese, di cui dobbiamo molto alle televisioni berlusconiane, può persino apparire intelligente e carismatico. Non servono più i contenuti, ma il linguaggio non verbale, lo stile comportamentale, quello che spesso sancisce il successo di un attore o di una rockstar. Siamo nel “dopo Cristo”, nella Società dello spettacolo realizzata di cui parlava Guy Debord, autore cult che scriveva già nel 1963: “Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine”.

Tratto da www.rassegna.it
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